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Addio ad un “cavallo di razza” | 27/05/2022 | Il Corsivo

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A cura di Ferruccio Bovio

Con la scomparsa di Ciriaco De Mita, la politica italiana perde uno degli ultimi “cavalli di razza” che le fossero rimasti. Una politica alla quale, del resto, l’ex leader democristiano ha dedicato veramente tutta la sua esistenza che, infatti, concludendosi ieri, lo ha salutato mentre era ancora impegnato a fare il sindaco di Nusco, il comune dell’avellinese in cui era nato 94 anni fa.

Resterà nella memoria di molti come un personaggio che non andava troppo d’accordo con le semplificazioni: anzi, la complessità ( e magari anche la tortuosità ) di certi suoi ragionamenti non sempre lo hanno facilitato nei contatti con il suo Partito, con il suo elettorato e con le altre forze politiche, sia alleate che avversarie. E proprio per questa sua raffinatezza argomentativa, l’Avvocato Gianni Agnelli ebbe a definirlo “un intellettuale della Magna Grecia”, volendo probabilmente significare che, a suo parere, De Mita era più che altro un contemplativo e, quindi, privo di quelle doti di pragmatismo che, invece, sono indispensabili a chi debba governare. Il punto è però che, per l’uomo che negli Anni 70 e 80 incarna, come forse pochi altri, il potere democristiano, è proprio il pensiero a dover presiedere a qualsiasi iniziativa politica, inquadrandola in un disegno strategico che vada ben al di là di qualche concreto interesse contingente. Di conseguenza non è difficile immaginare come, partendo da un’impostazione di questo tipo, la confusa ed incolta realtà politica degli ultimi trent’anni possa, quasi sicuramente, essergli sembrata vuota e svilita

De Mita, come del resto quasi tutti i democristiani, fu sempre molto diffidente nei confronti dei decisionismi, dei presidenzialismi e, comunque, di tutte quelle tendenze che guardavano con sempre maggiore attenzione alla concentrazione di maggiori poteri nella sola persona del leader di un esecutivo. Ed a questo proposito, l’ultima testimonianza del suo modo di intendere le istituzioni e la vita politica la diede, ormai quasi novantenne, sei anni fa quando, al referendum del 4 dicembre, si oppose fieramente alla riforma costituzionale propugnata da Matteo Renzi. Esattamente come, negli anni in cui fu segretario della DC e presidente del Consiglio, era stato il più acerrimo avversario di Bettino Craxi e della sua famosa idea di “Grande Riforma”.

Politicamente si era convinto del fatto che, in Italia, il partito responsabile per eccellenza, insieme alla Dc, fosse stato, almeno a partire dalla gestione Berlinguer in poi, il Pci. Sono però, ingiuste e superficiali le analisi che spesso lo hanno descritto come l’uomo del dialogo ad ogni costo con i comunisti. Certo, De Mita intendeva coinvolgerli sul terreno delle riforme istituzionali e, sempre con loro, nel giugno del 1985, concordò l’elezione al primo scrutinio di Francesco Cossiga alla presidenza della Repubblica, ma la sua era, soprattutto, una presa di coscienza – maturata sulle tracce di Aldo Moro – del fatto che era ormai giunto il momento di archiviare quella classica “conventio ad excludendum” nei confronti del PCI, che aveva regolato la formazione di tutti i Governi che si erano succeduti dalla Liberazione in poi.

Tra le frasi che gli vengono attribuite, una in particolare merita di essere citata: ed è quella secondo cui “quando un avversario ha torto bisogna aiutarlo ad avere ragione”. Non c’erano, quindi, per Ciriaco De Mita, pregiudizialmente dei nemici, ma soltanto persone che sbagliavano e che, pertanto, andavano aiutate a trovare la strada giusta.

Credits: Agenzia Fotogramma

Scritto da: Giornale Radio

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