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A cura di Ferruccio Bovio
Il conflitto in Ucraina ha senza dubbio rappresentato una sveglia particolarmente squillante per i Paesi dell’Unione Europea, presentando loro una nuova realtà, fondata su equilibri purtroppo ben distanti da quelli agiati e sereni sui quali si erano abituati a vivere.
Fino alla data cruciale del 24 febbraio scorso, i cittadini europei, forti delle loro ormai profondamente radicate tradizioni democratiche, si erano, infatti, illusi di poter costituire un modello di riferimento per tutto il resto del mondo in quanto ad organizzazione sociale e di essere, inoltre, ormai in grado indicare a tutto il Pianeta – grazie al tanto strombazzato Green Deal – quale sia la strada più rapida ed efficiente da percorrere verso la transizione ecologica.
Se osserviamo la risposta che il nostro Continente è stato capace di dare alla pandemia e la fermezza unitaria con la quale ha mantenuto (almeno fino ad ora) le sue posizioni di sostegno -sia militare, che economico – all’Ucraina, non possiamo che esprimere il nostro compiacimento per la compattezza mostrata da pressoché tutte le capitali europee. Specialmente se consideriamo pure il fatto che gran parte delle conseguenze economiche negative portate dalla guerra hanno finito per gravare proprio sulle spalle dei cittadini europei. Tuttavia, se proviamo ad ipotizzare quali potranno essere il ruolo politico ed il peso economico globali dell’Unione Europea in un prossimo futuro, è difficile non profetizzare una pericolosa perdita di terreno, soprattutto nei confronti delle super potenze di Washington e di Pechino.
L’impressione che abbiamo è quella che, mentre altre economie – di cui, in realtà, potremmo tranquillamente essere competitors – si stanno impegnando alla grande sui temi dell’innovazione tecnologica e della crescita industriale, Bruxelles stia, invece, concentrando le sue attenzioni prevalentemente sulla lotta al cambiamento climatico e sull’elettrificazione che ne discende direttamente: quasi fossero gli unici problemi veramente seri da affrontare. Ed a questo proposito, esattamente sette giorni fa, l’ex presidente di Confindustria, Antonio D’Amato, si è domandato come si possa, dinanzi all’enorme sviluppo industriale di Stati Uniti e Cina, trattare le produzioni manifatturiere europee come se fossero cosa ormai obsoleta, senza chiarire da dove, in un’eventuale alternativa, potrebbero scaturire il benessere e la ricchezza delle generazioni future. Non è qui il caso di soffermarci sui danni socio – economici che il precipitoso stop alla produzione di veicoli a combustione interna nel 2035 rischia di arrecare alla componentistica italiana, ma riteniamo che la discutibile scelta del Parlamento di Strasburgo sia tipica di un certo modo di procedere poco pragmatico. Naturalmente, nessuno si sogna di sottovalutare l’importanza strategica di un piano come il Green Deal e tantomeno di ridimensionarne gli obbiettivi finali: però, per citare D’Amato, da troppi anni l’Europa “ha smarrito la strada della competitività, continuando ad inseguire una visione demagogica e populista che porta alla sostanziale deindustrializzazione del nostro Continente”. Occorre, pertanto – aggiungiamo noi – che qualcuno faccia capire a Bruxelles che anche la transizione energetica richiede, a sua volta, la presenza delle imprese e della loro capacità di innovazione: a meno che l’intenzione non sia quella di tornare ai livelli di ricchezza e di benessere che caratterizzavano le società pre – industriali.