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A cura di Ferruccio Bovio
La Commissione europea, per rispondere all’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti, è orientata a consentire un ulteriore allentamento delle regole concernenti gli aiuti di stato. E di questo argomento se ne occuperà il Consiglio europeo che si terrà dal 9 al 10 febbraio. Si tratta, in sostanza, di adottare una contro misura rispetto al piano di 369 miliardi di dollari – a favore di aziende e famiglie – che l’amministrazione Biden ha, da poco tempo, varato per accelerare la transizione energetica e per sostenere la competizione con la Cina. Non c’è dubbio, quindi, sul fatto che l’Europa debba, in qualche modo, intervenire a tutela delle sue produzioni, al momento seriamente minacciate dalla concorrenza americana che gode, appunto, di straordinari aiuti pubblici. Tuttavia, basandosi sulle esperienze più recenti, le intenzioni che sembrano maturare a Bruxelles agitano non poco i sonni dell’imprenditoria e del Governo italiani. Infatti, negli ultimi due anni – sia a causa della crisi sanitaria, che del conflitto in Ucraina – nel Vecchio Continente abbiamo assistito ad un significativo allentamento delle regole comunitarie in merito all’autorizzazione degli aiuti di Stato da parte della Commissione UE: cosa che però è andata, con ogni probabilità, a svantaggio dei Paesi che, per via dei loro bilanci fragili e indebitati, non hanno potuto competere con le risorse messe in campo da altre nazioni finanziariamente più stabili come, ad esempio, Germania e Francia. Per averne conferma, basta esaminare i dati sui 672 miliardi di euro di aiuti di Stato per l’industria approvati dalla Commissione Europea nell’ultimo biennio: ne emerge che il 53,02% è stato notificato dalla Germania (pari a quasi il 9,24 % del PIL), il 24,06% dalla Francia (pari al 6,13 % del PIL) ed il 7,65% dall’Italia (2,69 % del PIL). Sono numeri che inducono a qualche riflessione, poichè evidenziano il rischio di una chiara penalizzazione competitiva dell’industria italiana rispetto a quella tedesca o francese. Questi aiuti di Stato si traducono, infatti, in una disponibilità eccessivamente diversa da Paese a Paese e che varia in funzione della forza dei rispettivi bilanci nazionali nel mettere a disposizione delle proprie aziende più fondi mirati per investimenti, innovazione, ricerca: e cioè per tutti quei fattori che, nel lungo periodo, promuovono la solidità e la ricchezza delle imprese. Per queste ragioni, l’Italia – in questo, a dire il vero, appoggiata da esponenti importanti della Commissione come il francese Thierry Breton ed il nostro Paolo Gentiloni – gradirebbe che la risposta all’iniziativa statunitense avvenisse attraverso uno specifico fondo di solidarietà europea: ma forse, anche al di là delle scontate opposizioni dei vari partners “frugali”, l’idea è stata avanzata ormai fuori tempo massimo. Se pensiamo che dell’Inflation Reduction Act americano se ne parla dalla scorsa estate, è chiaro che molti Paesi membri (tra i quali certamente anche il nostro) hanno lasciato colpevolmente trascorrere troppi mesi senza studiare adeguate contro misure, per poi ridursi a dover prendere, all’ultimo minuto, una decisione con l’acqua alla gola e destinata, comunque, a deludere la maggior parte delle capitali europee. Purtroppo, mentre Washington rimpinguava generosamente le casse dei suoi attori economici, qualcuno a Roma aveva puntato le sue attenzioni su temi di così decisiva rilevanza internazionale come il tetto al contante o qualche centesimo in più o in meno sul costo della benzina…
Viene quasi da pensare che a questo punto, per difendere al meglio le proprie imprese dalla concorrenza dei competitors più danarosi, al nostro Paese convenga addirittura che vengano ripristinate le vecchie regole rigide sugli aiuti di Stato, visto che i dati che abbiamo appena letto ci dicono che la situazione odierna favorisce solamente la Germania e la Francia.