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A cura di Daniele Biacchessi
Le prime immagini di Khan Yunis, liberata dai soldati israeliana, e ripresa lentamente dalla popolazione palestinese, sono quelle di città senza futuro, rasa al suolo dai bombardamenti, dove ogni forma di vita resta imprigionata tra le macerie. Una città morta. Si vedono famiglie sopra carretti trascinati da asini che guardano verso l’alto l’orrore della guerra con il volto smarrito, e si muovono tra scheletri di palazzi pericolanti, strade impolverate, macerie accatastate. La popolazione di Khan Yunis tenta di riprendersi ciò che resta prima dello scoppio del conflitto. Le automobili degli inviati dei media indipendenti e gli osservatori internazionali fanno slalom tra i crateri provocati dalle bombe israeliane. Quasi tutti gli edifici sono bruciati, inceneriti. Ai bordi di strade trasformate in sentieri si vedono veicoli militari non più utilizzabili e si respira un’aria di morte. E la guerra non è finita. C’è già una data per l’ingresso dei soldati israeliani a Rafah, anche se il premier Benjamin Netanyahu non ha rivelato quale sia il D-Day. Sotto la pressione interna della destra oltranzista che minaccia di far cadere l’esecutivo in caso di stop dell’operazione militare a Rafah, Netanyahu tira dritto nonostante il totale disaccordo di Washington. Secondo il Dipartimento di Stato americano, Israele non ha presentato un piano credibile per salvaguardare i civili, senza il quale sarebbe l’ennesima strage in una città dove sopravvivono un milione e mezzo di persone. Intanto si tratta ancora. Le delegazioni inviate al Cairo da Israele e Hamas hanno nelle mani una bozza voluta dagli americani in tre passi per riportare la pace nella Striscia: tacciano le armi per i tre giorni di festa dopo la fine del Ramadan, cioè da martedì.
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