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Se il presidente Biden disponesse di una bacchetta magica, assisteremmo subito alla sconfitta di Hamas con il minor numero possibile di vittime civili a Gaza, alla fine del premier israeliano Benjamin Netanyahu e del suo governo che si regge sul voto decisivo dei partiti della destra più oltranzista, alla liberazione di tutti gli ostaggi imprigionati dal 7 ottobre e ad un’Autorità Nazionale Palestinese che – come magicamente risorta dalle sue ceneri di corruzione e di ambiguità politica – riuscisse positivamente a riguadagnarsi la credibilità morale ed istituzionale necessaria per guidare i Palestinesi verso un futuro finalmente meno infausto.
Secondo la Casa Bianca, il rilancio dell’ANP è, infatti, la condizione essenziale per normalizzare i rapporti tra Israele ed il mondo arabo sunnita, dando vita ad un solido schieramento – patrocinato dagli USA e dalla NATO – in funzione anti iraniana (e, quindi, in definitiva pure anti russa). Tuttavia, la realtà dei fatti è ben più complicata di come vorrebbe che fosse il presidente americano…Da un lato, ogni sincera aspettativa di pace deve, infatti, in questo momento, fare i conti con quell’estrema destra israeliana – di cui Nethanyau ha bisogno come dell’aria per tenere in vita il suo esecutivo – la quale vede come il fumo negli occhi l’idea stessa di un qualunque coinvolgimento dell’Autorità Palestinese a Gaza: ciò, nel timore che la cosa possa costituire la premessa per rivitalizzare l’ormai quasi del tutto dimenticata soluzione dei “due popoli e due stati”. Soluzione che scriverebbe la parola fine sul sogno messianico – e qui è, forse proprio il caso di usare questo aggettivo – di un unico “Grande Israele”, che comprendesse, oltre a Gaza, anche l’intera Cisgiordania. Dall’altro, non si può certamente far finta di ignorare che, quand’anche si riuscisse a porre in essere una qualsiasi forma di trattativa diplomatica tra le due parti in insanabile conflitto da 75 anni, a discutere con Washington e con Tel Aviv, attualmente, sarebbe un’organizzazione fanaticamente islamista e votata alla cancellazione totale di ogni presenza ebraica su un suolo che pure fu anche quello biblico.
Siamo, pertanto, in presenza di una lettura dei fatti che, se vista da entrambi i fronti, ci appare come sostanzialmente speculare, con Hamas che parla di una guerra etnico-religiosa tra musulmani ed ebrei, il cui sbocco definitivo è la fondazione di un solo stato islamico che vada dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo. E con Israele in cui, invece, sulle scelte di Nethanyahu, sono al momento assolutamente condizionanti le posizioni dei partiti che sono espressione dei coloni suprematisti ebrei, i quali non distinguono tra arabi moderati ed arabi terroristi, poiché , a loro giudizio, c’è ben poco da distinguere dinanzi ad un disegno sacro e millenario che viene, addirittura, direttamente dalla volontà di Dio… D’altra parte, per formare il suo governo e per salvare se stesso da indagini per corruzione che ne avrebbero compromesso del tutto la carriera di statista, il premier israeliano non ha esitato a coinvolgere nella sua avventura anche forze politiche integraliste e nazionaliste, che adesso gli presentano il conto, ben sapendo che se l’intramontabile Bibi cercasse oggi di estrometterle dai giochi, oltre a perdere il potere rischierebbe anche il carcere.
In questa fase, dunque, in entrambe le comunità a prevalere sono i cosiddetti “falchi”, fautori di uno “stato unico”. Tuttavia, specialmente in Israele, i sostenitori dei “due stati” esistono ancora, ma – proprio come Biden – sono consapevoli del fatto che la soluzione che loro propongono rischia di rimanere ancora a lungo nel campo delle teorie: almeno fino a quando gli arabi di Gaza e di Cisgiordania non si saranno dotati di una rappresentanza politica che sia realmente legittimata dal consenso popolare e, di conseguenza, risulti anche maggiormente credibile nel confrontarsi con Tel Aviv.
Dato quasi per scontato che, prima o poi, la democrazia israeliana saprà scrollarsi di dosso il governo più impresentabile della sua storia, la partita più difficile sarà, pertanto, quella che disputeranno, sul proprio campo, i Palestinesi: sapranno rinunciare, una volta per tutte, ad anacronistici e fallimentari programmi di supremazia etnica e religiosa, per mobilitare, invece, la loro unità di intenti su obbiettivi che siano finalmente davvero ispirati ad un sano pragmatismo? Noi non possiamo che auspicarlo, associando la nostra speranza a quella di Joe Biden.
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