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Ottantasette anni dopo | Il Punto della Settimana

today16 Febbraio 2025

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La Conferenza di Monaco, giunta alla sua 61esima edizione, rappresenta solitamente un punto di riferimento per il dibattito sulle principali sfide di politica estera e di sicurezza a livello globale. Quest’anno però, assume, indubbiamente, un significato del tutto particolare, al punto che non pochi commentatori sono giunti persino a paragonarla a quella che, nel 1938, segnò – sostanzialmente – l’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Infatti, il contesto in cui si svolge l’ormai tradizionale appuntamento bavarese è oggi segnato dall’elettroshock che Donald Trump sta imponendo alla politica internazionale, dall’ancora balbettante avvio della nuova Commissione europea, dalla fragilità interna di Francia e Germania oltreché, ovviamente, dal conflitto in Ucraina.

Quella Monaco di 87 anni fa si rivelò la sede in cui Parigi e Londra sacrificarono, di fatto, la Cecoslovacchia, alimentando le aspettative espansionistiche di Hitler: speriamo che quella del 2025 non venga ricordata, dagli storici del futuro, come l’appuntamento in cui l’America pose le basi per la fine dell’Occidente liberal democratico.

Infatti, nel lasciare intendere che a decidere le sorti dell’Ucraina saranno essenzialmente – se non esclusivamente – Stati Uniti e Russia, Trump sembra farsi promotore di una visione di un mondo nuovo, in cui a vincere sarà sempre il più armato, il più arrogante e il più spregiudicato. Sia che si tratti di fare del Governo di Kiev un burattino nelle mani del Cremlino, oppure di accorgersi, da un momento all’altro, che, per la Groenlandia, è assolutamente necessario un cambio di passaporto.

Dobbiamo, francamente, riconoscere di esserci sbagliati quando, subito dopo l’elezione del Tycoon alla Casa Bianca, avevamo sperato che la nuova Amministrazione americana avrebbe dato seguito e concretezza a certi riferimenti – fatti in campagna elettorale – in merito ad alcuni “rapporti di forza” fermi e chiari, che sarebbero stati gli unici argomenti in grado di condizionare il cinico pragmatismo di Putin. Invece, ci tocca adesso, purtroppo e a malincuore, prendere atto del fatto che, evidentemente, il primo soggetto a subire la legge della jungla è proprio il Presidente degli Stati Uniti: prepotente con gli amici (vedasi Canada e Messico) e servile con i nemici (anche storici) del suo Paese, come quel Vladimir Putin, ricercato dalla Corte Penale Internazionale, al quale ha incredibilmente riconsegnato il diploma di statista legittimato ed autorevole a livello mondiale, confessando candidamente di avere parlato con lui, per un’ora e mezza, non solo di Ucraina, ma anche “del grande beneficio” che un giorno avranno nel lavorare insieme…  Forse, nei confronti di un uomo che comunque – e guai a dimenticarlo – controlla pur sempre uno spaventoso arsenale nucleare,  era effettivamente eccessivo l’atteggiamento di chiusura assunto da Joe Biden, che lo definiva “un killer” e che si rifiutava persino di rivolgergli la parola: tuttavia, prima di arrivare alla “corresponsione di amorosi sensi” cui abbiamo assistito in questi giorni, pensiamo che  un minimo di cautela diplomatica in più – anche nel rispetto di Zelensky e degli Europei – sarebbe stata decisamente opportuna.

Se Trump ed il suo sodale del Cremlino stanno davvero lavorando ad una sorta di spartizione di Yalta del terzo millennio (invitando, naturalmente, al banchetto anche la Cina), allora il Vecchio Continente – ispirato, ormai da lunghi decenni, più dall’osservanza dei migliori principi giuridici e umanitari, che dalle logiche tipiche dei due “raffa raffa” di turno – non pare, purtroppo, nella condizione di poterla impedire. Però, lasciateci concludere che, se dobbiamo sul serio ridurci a guardare a Xi Jinping come al meno peggio o, comunque, come all’unico membro della triade del potere globale in possesso di almeno una briciola di rispetto (sia pure ipocrita e formale) del diritto internazionale, allora vuol dire che stiamo entrando veramente nella fase più tragicomica della Storia universale.

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