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A cura di Ferruccio Bovio
Il tanto atteso (e temuto) discorso di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, si è poi rivelato, essenzialmente, come una controllata sequenza di minacce e di proclami anti occidentali, ben attenta però, a non oltrepassare il limite delle parole per passare a quello dei fatti.
L’amico più fidato dell’Iran ha, dunque, mostrato una certa dose di pragmatismo, comprendendo che oggi, nonostante il ricchissimo arsenale di missili messogli a disposizione da Teheran, il Libano, nella fase di drammatica crisi economica che il Paese sta attraversando, tutto può permettersi tranne che di entrare in guerra con Israele o – peggio ancora – con gli Stati Uniti. E non è, quindi, un caso se, dopo quanto è avvenuto il 7 ottobre scorso, per lo Stato ebraico non si sia aperto un fronte militare anche a nord del Paese. Tranne, si intende, qualche sporadico scambio di artiglieria: tanto per permettere al movimento sciita di Beirut di salvare le apparenze e non perdere del tutto la faccia dinanzi ai miliziani sunniti di Hamas che – immaginiamo – siano rimasti piuttosto delusi dal modestissimo contributo fornito alla loro causa da quelli che comunque – in attesa di regolare, prima o poi, i conti per quanto concerne l’interpretazione dell’Islam – sono ancora, per il momento, i loro più convinti sodali nel portare avanti il disegno ferocemente antisemita.
Prendiamo, pertanto, positivamente atto di come – sebbene nelle parole di Nasrallah non sia certo mancata la presenza di tanta retorica – alla fine ed in concreto, a prevalere siano state, soprattutto, la prudenza e la politica. Non va, ad esempio, trascurato il fatto che, mentre il capo degli sciiti libanesi esaltava gli uomini di Hamas definendoli “martiri pronti al sacrificio” e ribadiva che l’obiettivo finale restava “l’eliminazione del nemico sionista” fantoccio di Washington, al tempo stesso si preoccupava anche di mettere ben in chiaro che il “merito” dell’attacco terroristico del 7 ottobre andava attribuito esclusivamente ai Palestinesi. Un atteggiamento, quindi, abbastanza “cerchiobottista, per sottolineare la completa estraneità del suo movimento (e dell’Iran) rispetto alla mattanza verificatasi in quello sciagurato sabato di inizio Autunno, senza per altro rinnegare, ufficialmente, la sua appartenenza al fronte dell’intransigenza e del rifiuto.
Non sappiamo quanto i contenuti del sermone – tenuto da una località ignota – riflettano realmente i convincimenti personali di Nasrallah o quanto, invece, siano stati ispirati dall’Iran: tuttavia, in questa seconda ipotesi, chiunque di noi auspichi il successo delle ragioni della diplomazia su quelle del fucile, non potrà che prendere atto, con favore, della scelta che sembra ora indirizzare Teheran verso la rinuncia ad estendere, in modo azzardato, un incendio dalle conseguenze potenzialmente devastanti ed imprevedibili.