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A cura di Ferruccio Bovio
La parola “Sionismo”, soprattutto a partire dalla Guerra dei Sei Giorni, ha assunto, in certi ambienti politici (sia di destra, che di sinistra), una valenza trasversale e negativa, che riflette, in buona sostanza, un orientamento ideologico ostile all’esistenza stessa dello Stato di Israele. In generale, gli antisemiti che proprio non se la sentono di essere messi sullo stesso piano dei peggiori criminali nazisti, utilizzano il concetto di “antisionismo” per fornire a se stessi una sorta di giustificazione politica, che renda più presentabile quella che, purtroppo, è invece una loro vera e propria forma di avversione (quasi epidermica) verso tutto ciò che sa di ebraismo. Tanto è vero che è piuttosto frequente imbattersi in qualcuno che esprime la propria opposizione nei confronti del Sionismo, ma aggiunge di non avere, comunque, nulla contro chi è di origine israelita…Tuttavia, l’argomentazione appare subito piuttosto fragile, non appena si considera che nel mondo i sionisti – tranne qualche eccezione come chi sta scrivendo queste righe – sono in larghissima misura Ebrei ed è, quindi, piuttosto difficile fare certe distinzioni…Certo, c’è sionismo e sionismo…c’è quello delle origini – laico e liberal socialista – e c’è quello di chi oggi, irresponsabilmente, pretende di colonizzare tutta la Cisgiordania sulla base di chissà quali riferimenti biblici…
Storicamente, il movimento sionista nasce verso la fine dell’Ottocento e, nell’accezione del suo massimo esponente, l’ungherese Theodor Herzlel, è concepito come un filone di pensiero che propugna il ritorno – certamente non in maniera violenta – degli Israeliti, sparsi un po’ in tutto il mondo, nella Terra delle loro origini. Sia che vi giungano animati da uno spirito laico oppure da un fervore religioso, quasi tutti i primi Ebrei che, agli inizi del secolo scorso, arrivano in quell’area dimenticata da Dio e dai santi dell’allora Impero Ottomano, lo fanno con l’intenzione di vivere in pace con i loro vicini Arabi, dai quali acquistano – pagandoli, tra l’altro, anche profumatamente – i primi terreni sui quali, nel corso degli anni, prenderanno corpo quelle originali esperienze di agricoltura socializzata che tutti riconosciamo oggi nei kibbutz. Ed a questo proposito, ricordiamo anche come il laburista Ben Gurion, fondatore dello Stato di Israele, già nel 1918 dichiarasse che l’idea stessa di espellere i residenti arabi da quei territori era “un miraggio reazionario e dannoso”. Sfortunatamente, non sapremo mai se questo ideale di coesistenza pacifica tra Arabi ed Israeliani avrebbe potuto funzionare, visto che, respingendo la risoluzione 181 delle Nazioni Unite del novembre 1947 – che suddivideva la “Terra Santa” in due nazioni distinte (Israele e Palestina) – ed attaccando subito militarmente il
neonato Stato ebraico, le leadership arabe di allora segnarono, fin dagli inizi, le sorti che, da ormai 75 anni, accompagnano il vivere di due popoli destinati, assurdamente, a scontrarsi in modo reciproco. Pertanto, il sogno di Theodor Herzl si è realizzato sul piano del diritto internazionale nel 1948, ma per affermarsi concretamente ha dovuto, suo malgrado, inserirsi in un contesto fatto di lutti e rancori e, quindi, ben lontano da quello che il suo profeta aveva teorizzato.
A malincuore dobbiamo, infine, prendere atto del fatto che il Sionismo viene oggi seriamente minacciato non più soltanto negli ambienti che, tradizionalmente, lo hanno sempre avversato, ma anche all’interno dello stesso Stato israeliano, dove la sua dignità culturale rischia di essere davvero profanata da forze politiche e religiose che agiscono in nome di una presunta superiorità ebraica e che risultano, purtroppo, sempre più spesso determinanti quando si tratta di formare una maggioranza di governo. E la cosa non può che creare un profondo disagio in chi ha sempre guardato ad Israele come all’unico faro di democrazia presente in tutto il Medio Oriente.
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