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A cura di Ferruccio Bovio
Da quel poco che è filtrato circa gli incontri avvenuti tra Steve Witckoff (l’incaricato speciale di Donald Trump per il Medio Oriente) ed il premier israeliano Netanyahu (incontri che, tra l’altro, sembrano essere stati niente affatto rilassati, ma piuttosto “franchi e cordiali”, con tutto quello che l’espressione significa ipocritamente nel linguaggio diplomatico), ci sentiamo incoraggiati a sperare che gli intendimenti del nuovo presidente americano vadano ben oltre i limiti di una sia pure urgente e necessaria tregua dei combattimenti nella Striscia di Gaza. Come è noto, il nuovo inquilino della Casa Bianca è un soggetto abbastanza imprevedibile, ma certamente non privo di una certa fantasia se non politica, almeno affaristica che – sebbene molto lontana dai modi e dalle parole che generalmente definiscono l’agire di un capo di stato moderno – sarebbe sbagliato sottovalutare. Vogliamo, quindi, auspicare che – piaccia o non piaccia ai suoi interlocutori arabi o israeliani – questa nuova amministrazione USA sia orientata a ripartire proprio da quello che, probabilmente, possiamo considerare come l’unico momento degno di essere ricordato della precedente presidenza Trump: e cioè, dal rilancio degli Accordi di Abramo. Pertanto, nulla di particolarmente rivoluzionario, ma la ripresa, invece, di quel piano di normalizzazione delle relazioni tra Israele ed Arabia Saudita, tanto osteggiato dall’Iran (e dai vari gruppi oltranzisti che vi fanno riferimento), in quell’area del mondo che, ironia della sorte, dovrebbe pure rappresentare la Terra Santa. E non a caso, il massacro del 7 ottobre è avvenuto proprio quando pareva ormai praticamente scelto l’inchiostro col quale sarebbe stata siglata la storica intesa tra lo Stato ebraico ed il Regno più ricco ed influente del mondo musulmano. Se, dunque, gli obbiettivi mediorientali di Donald Trump non sono cambiati, ma sono tuttora rimasti quelli fissati durante il suo primo mandato, allora ecco che, in cambio di una neutralizzazione delle aspirazioni nucleari iraniane (da ottenersi con le buone o con le cattive), Washington dovrebbe chiedere come contropartita, al potente principe saudita Mohammed Bin Salman, il riconoscimento ufficiale di Israele, dal quale, a sua volta, pretenderebbe, invece, un contestuale nulla osta verso la graduale costituzione di uno Stato palestinese, di cui l’Arabia diventerebbe il principale tutore politico ed economico. Aspetto, quest’ultimo, che – dettaglio da non trascurare – andrebbe anche a meglio garantire la sicurezza di Tel Aviv, essendo il regime di Riad uno dei più irriducibili nemici della “Fratellanza Musulmana”: e cioè proprio dell’organizzazione islamista da cui ha tratto origine Hamas. Ed è, quindi, chiaro che assegnare ai Sauditi la sovraintendenza sul novello Stato palestinese significherebbe anche escludere, quasi del tutto, il gruppo terrorista di Gaza dai futuri giochi politici.
Inoltre, facendo della nuova nazione palestinese una sorta di protettorato saudita – gestito magari anche d’intesa con altre potenze sunnite – Trump immagina, con ogni probabilità, di poterla rapidamente trasformare in un’area ricca e produttiva e pertanto, come tale, anche molto meno disposta a lasciarsi incantare – almeno così si spera – dalle sirene del fanatismo ideologico in chiave anti semita ed anti israeliana. In altre parole, la scommessa sarebbe quella di eliminare il terrorismo finanziando investimenti in infrastrutture avanzate e garantendo il benessere per tutti.
Naturalmente, non è detto che ciò che verrebbe accolto con favore in quasi tutto il resto del Pianeta debba funzionare bene anche per la Palestina, ma vale, comunque, la pena di provare a crederci.
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