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A cura di Ferruccio Bovio
Oggi, in Turchia, sessanta milioni di elettori sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Parlamento, ma soprattutto per pronunciarsi sulla conferma o meno di Recep Erdogan alla carica di capo dello stato: anche se, probabilmente, per conoscere davvero il nome di chi guiderà la Repubblica presidenziale di Ankara nei prossimi cinque anni, bisognerà attendere la data del 28 maggio: quando cioè, dovrebbe tenersi il ballottaggio, nel caso in cui nessuno degli attuali candidati avesse varcato, nella consultazione odierna, la soglia del 50%.
Per la prima volta, da circa vent’anni a questa parte, il presidente uscente non è dato dai sondaggi come sicuro vincitore: anzi, stando almeno agli ultimi dati demoscopici raccolti, il candidato delle opposizioni Kemal Kilicdaroglu – detto anche il “Gandhi turco” – sembra addirittura in lieve vantaggio sul “sultano” Erdogan, il quale non è certamente abituato a condurre campagne elettorali in affannosa rincorsa.
Ma chi è lo sfidante che insidia così da vicino una leadership che eravamo tutti abituati a considerare particolarmente salda? Di lui sappiamo che ha 74 anni e che, pur partendo da condizioni sociali umilissime che lo hanno obbligato a lavorare nei campi fin da ragazzino, è riuscito egualmente ad affermarsi nel mondo accademico, raggiungendo una cattedra di Economia.
Oggi è il capo del Partito Popolare Repubblicano – lo stesso fondato dal padre della patria Mustafa Kemal Ataturk – e guida una coalizione di sei formazioni che sono accomunate tra di loro dalla sola volontà di dare una spallata definitiva al regime erdoganiano. Promette dialogo e democrazia, in contrapposizione alla concezione autoritaria del potere tipica di Erdogan ed esprime, inoltre, una visione molto più laica della società turca, rispetto a quella imposta, invece, dal Partito della Giustizia e dello Sviluppo, attualmente al governo e decisamente più orientato verso la costruzione di un Paese fondato essenzialmente sui principi islamici.
Non capitano certamente nel momento migliore per Erdogan queste elezioni che vedono il “sultano” in una chiara difficoltà dovuta sia all’inflazione ormai arrivata al 50%, che alle profonde ferite (cinquantamila morti) lasciate tra la popolazione dal terribile terremoto del febbraio scorso.
Da notare che, in suo favore, Kilicdaroglu potrà contare anche sull’appoggio esterno dell’elettorato curdo che, da solo, vale il 10% circa dei voti e che, indubbiamente, rappresenta un grosso contributo per le ambizioni del candidato laico.
Comunque sia, chiunque vinca si troverà a dover gestire una situazione interna particolarmente complicata: basti pensare ai 100 miliardi di dollari da trovare per ricostruire le zone devastate dal terremoto. Oppure all’inflazione che, come già detto, viaggia stabilmente sopra il 50%, con punte del 156% per i prezzi della frutta e del 279% per quelli della verdura, mentre la lira turca, negli ultimi dodici mesi, si è svalutata del 60% sia sul dollaro, che sull’euro.
Tuttavia, Erdogan non è uomo che si arrenda facilmente e non va sottovalutato il fatto che, al momento, egli esercita ancora un controllo pressoché assoluto sull’esercito e sui servizi di sicurezza. Pertanto, se – cosa, tra l’altro, assai probabile – il risultato elettorale non dovesse apparire assolutamente chiaro e finisse magari per sfociare in proteste di piazza, la Turchia rischierebbe di andare incontro a pericolosi momenti di tensione.
Speriamo, dunque, di non dover nuovamente rivedere le immagini che, nel 2016, seguirono al presunto tentativo di colpo di stato che, allora, la propaganda di Erdogan attribuì al politologo Fethullah Gulen, esule negli Stati Uniti. In quei giorni di violenta repressione, si contarono, infatti, 290 morti, 1440 feriti, 2893 arresti e vennero colti i più svariati pretesti per legittimare ulteriori restrizioni alle libertà civili e per imporre centinaia di epurazioni sia nella magistratura, che nell’esercito.