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today12 Luglio 2023 10
A cura di Ferruccio Bovio
Se ci soffermiamo ad analizzare i risultati emersi da svariati sondaggi, che hanno rivelato percentuali molto alte tra i cittadini italiani che si pronunciano (fino al 74%) a favore del cosiddetto “salario minimo”, può apparirci quasi inspiegabile l’atteggiamento di sostanziale chiusura assunto, dai partiti che formano la maggioranza di Governo, nei confronti di una legge che si incarichi di fissare una soglia retributiva al di sotto della quale sia vietato scendere. Tuttavia, andando a considerare anche le loro argomentazioni, si scoprono ragionamenti e timori che non vanno assolutamente trascurati. Se, infatti, per i partiti di opposizione, stabilire un livello salariale minimo a 9 euro lordi costituisce la via maestra per tutelare i circa 3 milioni di lavoratori “poveri” che sono concentrati prevalentemente nei settori dei servizi e dell’agricoltura, per il Governo esistono altre e già più collaudate alternative da percorrere, come quella – prima su tutte – di combattere il fenomeno degli stipendi troppo bassi, utilizzando lo strumento della contrattazione collettiva. Il che significa, ovviamente, lasciare all’esclusiva competenza delle parti sociali la gestione della materia.
A parte il fatto – così pare ragionare Palazzo Chigi – che, nei settori a più bassa redditività, l’introduzione del salario minimo potrebbe dare impulso ad ulteriore lavoro in nero o a finto part time, non bisogna neppure tralasciare i casi – tutt’altro che remoti – nei quali datori di lavoro che già oggi pagano, su base contrattuale, più di 9 euro l’ora, potrebbero essere indotti – da una legge che consentisse loro di scendere a tale limite – ad ignorare il contratto sottoscritto con i sindacati per applicare, invece, direttamente la norma sul salario minimo.
Recentemente, Giorgia Meloni, affrontando lo spinoso tema, si è premurata di sottolineare che “la stragrande maggioranza di chi oggi è lavoratore dipendente nel privato è coperto (nella misura del 97% dei rapporti di lavoro) da contratti collettivi nazionali che già di fatto prevedono un minimo salariale”. Pertanto, sempre seguendo il ragionamento della premier, il salario minimo garantito riguarderebbe solo il 3% di chi lavora in Italia. E qui però, pensiamo sia doveroso spendere due parole in più in merito allo stato della contrattazione collettiva nel nostro Paese, che viene, appunto, definita “collettiva”, anche se, a ben vedere, lo è poi fino a un certo punto. Infatti, è vero che i lavoratori che vi rientrano ufficialmente, sono oltre il 90%: tuttavia, capita spesso di dover assistere ad accordi siglati da associazioni datoriali e sindacati scarsamente rappresentativi, che danno vita ai cosiddetti “contratti pirata”. Contratti che, in concreto, non si fanno scrupolo di stabilire minimi salariali e condizioni di lavoro largamente inferiori a quelli previsti dai contratti riferibili alle maggiori organizzazioni imprenditoriali e sindacali. Ed a questo proposito, vale la pena di segnalare che quella percentuale del 97% a cui ci rimanda la Meloni, pur essendo certamente effettiva, è comunque – almeno secondo gli ultimi dati forniti dalla Fondazione Di Vittorio – condizionata dalla presenza di 894 tipi di contratti che, nel settore privato, sono stati sottoscritti in Italia nel 2022. Di essi, 207 (vale a dire il 23,2% del totale) portano le firme di Cgil, Cisl, Uil, mentre i restanti 687 (e cioè il 76,8%), quelle di altre organizzazioni sindacali. Le percentuali sembrano, pertanto, riflettere una realtà nella quale la presenza di lavoratori dipendenti non protetti da un contratto negoziato tra le sigle sindacali più rappresentative risulta, quindi, tutt’altro che marginale.
Scritto da: Giornale Radio
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