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A cura di Ferruccio Bovio
Nell’acceso dibattito attualmente in corso sull’opportunità di mantenere in vigore l’art.41 bis, che prevede il cosiddetto “ergastolo ostativo” per mafiosi e terroristi non pentiti, è entrata a farsi autorevolmente sentire la voce di Vincenzo Scotti: l’ex ministro democristiano degli Interni che, unitamente all’allora Guardasigilli Claudio Martelli, è considerato il padre di quella legislazione antimafia cui lo Stato fece ricorso per contrastare l’irresponsabile svolta stragista che caratterizzò, tra la fine degli Anni 80 e l’inizio dei 90, la leadership di Totò Riina e dei suoi “corleonesi”.
Anni di interminabili sacrifici umani – fossero essi servitori dello Stato o semplici cittadini – indussero finalmente le forze politiche a trasformare in norme ufficiali le svariate le richieste di nuove leggi avanzate dal Pool antimafia, creato dal giudice Rocco Chinnici insieme ai colleghi Falcone, Borsellino e Di Lello. In particolare, fu proprio Scotti (in stretta collaborazione con Martelli) e con la supervisione di Falcone a fare in modo che, dal ’90 al ’92, prendesse corpo quella legislazione antimafia che, nel tempo, è riuscita ad ottenere risultati assai importanti e che, a tutt’oggi, continua a costituire un riferimento addirittura internazionale. Naturalmente, si tratta di provvedimenti impegnativi e delicati per la tutela delle libertà costituzionali: cosa di cui gli estensori stessi sono sempre stati ben consapevoli.
Non a caso, Scotti riconosce le ragioni di quanti, in questi giorni, sostengono che l’ergastolo ostativo possa essere considerato come una misura detentiva in sostanziale contrasto con l’orientamento della nostra Costituzione, la quale prevede che la pena debba tendere al reinserimento del condannato e non al suo isolamento. Infatti, nel nostro ordinamento penale, nessuno può essere carcerato senza appello. Tuttavia, l’ex ministro degli Interni osserva che se, ad esempio, Matteo Messina Denaro è a conoscenza di molti retroscena che possono, indubbiamente, risultare utili alle forze dell’ordine per completare la loro azione di contrasto alla mafia, è proprio il 41 bis ad offrirgli la possibilità di “liberarsi la coscienza e di uscire da quel regime carcerario eccessivamente repressivo e duro”. Scotti precisa, infatti, che questo articolo del nostro Ordinamento Penitenziario (conosciuto anche come ”carcere duro”) è stato, appunto, pensato come un “chiavistello” che resta a disposizione dei detenuti: se decidono di collaborare con la giustizia – continua Scotti – “possono aprire le porte del carcere o almeno quelle che li separano dal mondo, in modo da rompere il circuito tra chi sta dentro da chi sta fuori”. Ed è essenzialmente il fine che si pone questa misura di legge.
Sempre Scotti non nasconde però, neanche i timori che lo stesso Giovanni Falcone nutriva nei confronti del 41 bis: un articolo della cui validità era estremamente convinto (essendone stato il principale proponente), ma che considerava, al tempo stesso, uno strumento delicatissimo, poichè richiedeva giudici di altissimo livello e rigore, se non si voleva rischiare che fosse”il collaboratore di giustizia a guidare il magistrato”.
Scritto da: Giornale Radio
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