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today24 Dicembre 2022 6
A cura di Daniele Biacchessi
Quando un Presidente del Consiglio ricorre al voto di fiducia per approvare una legge importante e determinante, come ad esempio la manovra economica, vuol dire che sul piano politico è debole, non riesce cioè ad esercitare il suo potere politico nella maggioranza che lo sostiene. Se ciò accade ad un esecutivo tecnico, ci può stare, perché la questione riguarda essenzialmente il difficile rapporto tra politica e gestione della cosa pubblica da parte di una leadership composta da non eletti. Ma se avviene ad un Governo politico, eletto cioè dagli italiani, con una premier come Giorgia Meloni ai massimi livelli del consenso elettorale, il problema si aggrava e determina una imposizione. Infatti, in Italia la questione di fiducia è un istituto della forma di governo parlamentare riservato al Governo, non previsto in Costituzione, ma disciplinato dai regolamenti interni della Camera e del Senato, e della legge n. 400/1988, la quale riconosce al Governo la facoltà di avvalersi di tale istituto e le modalità per accedervi e vincola il Presidente del Consiglio alle dimissioni in caso di voto contrario del Parlamento ad un suo provvedimento sul quale ha posto la fiducia. Certo, qualcuno dirà che “così fan tutti”. Il Presidente del Consiglio Mario Draghi è ricorso al voto di fiducia 35 volte in 11 mesi, quasi 3,2 voti al mese, un record che supera quello dell’esecutivo di Mario Monti, che aveva una media di 3 al mese. Seguono il Conte II, con una media di 2,25, i governi Gentiloni (2,13), Renzi (2), Letta (1,11), Berlusconi quattro (1,07), Conte I (1). Sta di fatto che negli ultimi anni, partendo dal governo giallo-verde Conte I, soprattutto l’approvazione alla legge di bilancio è diventata una corsa senza sosta per chiudere in tempo, entro il 31 dicembre. Una maratona che si ripete ormai ogni anno con il via libera ‘in zona Cesarini’, sempre a ridosso della fine dell’anno espropriando di fatto il Parlamento del suo ruolo.
Scritto da: Giornale Radio
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