Il Corsivo

Questione territoriale e questione identitaria

today30 Maggio 2025

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A cura di Ferruccio Bovio

Quando si parla di Medio Oriente, le opinioni che tendono a prevalere – anzi, forse addirittura ad uniformarsi – sono quelle che, in maniera sostanzialmente trasversale, ci spiegano che la pace in Terra Santa diventerà una realtà soltanto il giorno in cui Israele accetterà la presenza di uno Stato palestinese ai suoi confini. E se diplomazie, università e media insistono su questo tasto con tanta convinzione, sarebbe sconsiderato non prestare, alle loro argomentazioni, tutta l’attenzione che indubbiamente meritano. A voler essere però storicamente precisi, bisogna pure riconoscere che, in origine, i primi a ragionare in termini di “due stati e due popoli”, sono stati proprio gli Israeliani, i quali, fin dal 29 novembre del 1947, accettarono la Risoluzione 181 dell’ONU che prevedeva la spartizione del territorio palestinese fra due istituendi Stati: uno ebraico, l’altro arabo, con Gerusalemme sotto controllo internazionale. Il rifiuto di questo Piano da parte del mondo arabo condurrà – come noto – allo scoppio della prima guerra arabo / israeliana del 1948. Ed a questo proposito, ricordiamo che le truppe di Egitto, Siria, Libano, Transgiordania e Iraq invasero Israele proprio il giorno dopo la sua nascita ufficiale: il 15 maggio 1948.

Passano gli anni (e sono anni insanguinati da entrambe le parti), ma, nel luglio del 2000 – anfitrione il presidente Clinton – a Camp David l’allora premier israeliano Ehud Barak mostra di credere ancora alla soluzione dei “due stati”, offrendo a Yasser Arafat uno Stato palestinese su oltre il 94% della Cisgiordania, tutta Gaza e con capitale a Gerusalemme Est. Una soluzione decisamente favorevole che, tuttavia, il Rais sorprendentemente rifiuta. Otto anni più tardi un nuovo leader israeliano – questa volta si tratta di Ehud Olmert – si spinge persino oltre Camp David, proponendo al presunto “moderato” Abu Mazen, ulteriori scambi di territorio per compensare gli insediamenti, il controllo congiunto sui luoghi sacri di Gerusalemme ed un ritorno parziale dei rifugiati palestinesi. Anche in questo caso però, l’offerta non verrà presa in considerazione. Nel frattempo, nel 2005, Israele – sotto il governo del generale Ariel Sharon, la cui fama non è certamente quella di un mite fraticello di Assisi – ha provveduto al ritiro unilaterale da Gaza, smantellando 21 insediamenti e dislocando altrove oltre 9.000 coloni israeliani. In cambio della rinuncia totale al territorio, Tel Aviv non riceverà mai ringraziamenti o attestati di amicizia, ma dovrà invece accontentarsi di una pressoché quotidiana razione di missili provenienti proprio dalla Striscia, ormai divenuta il feudo di Hamas. Viene, pertanto, legittimo avanzare il sospetto che a dividere gli Arabi dagli Israeliani non siano tanto gli aspetti territoriali, quanto quelli identitari. In altre parole, il popolo palestinese è disposto a coesistere con quello ebraico? A noi pare, quindi, che, se davvero si vuole la pace, oltre a chiedere ad Israele alcune indispensabili concessioni territoriali, sia soprattutto prioritario domandare ai Palestinesi di chiarire, una volta per tutte, se sia maturato o meno il loro “si” ad una coesistenza irreversibile e senza retro pensieri.

30 Maggio 2025

Scritto da: Redazione


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