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23 maggio 1992. La mafia compie il primo di una lunga serie di attacchi allo Stato. Il vertice di Cosa Nostra (Riina, Bagarella, Provenzano, Messina Denaro), decide di colpire in alto e organizza la strage di Capaci, uccidendo il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della loro scorta. Nulla sarà più come prima. Occhi osservano dall’alto della collina. Occhi minacciosi, pieni di odio. Occhi che hanno il colore del tritolo incrociano occhi buoni di uomini e donne. Sono dentro un’automobile che corre verso la morte. L’ultima corsa di Giovanni Falcone inizia all’aeroporto di Ciampino, a Roma, sabato 23 maggio 1992. Sono le 16:50. Un jet dei servizi segreti decolla con a bordo il giudice e la moglie Francesca Morvillo. Destinazione Palermo, aeroporto di Punta Raisi. Atterrerà 53 minuti dopo. Li attendono 6 agenti con le loro auto, 3 Fiat Croma blindate. Le vetture si muovono dall’aeroporto alle 17:50. Falcone sceglie la Croma bianca. Lui è al volante, la moglie gli siede accanto. Imboccano l’A29. La campagna siciliana sfila ai lati con i suoi colori di maggio. Il sole taglia di traverso i finestrini mentre un caldo vento di scirocco accarezza tutti i loro volti. C’è odore di mare. Sulla statale che corre parallela all’autostrada, una Lancia Delta si mette in moto. E’ quella di Gioacchino la Barbera. Palermo dista solo 7 chilometri. Le auto si stanno lentamente avvicinando allo svincolo Capaci-Isola delle Femmine. Dalle colline che sovrastano l’autostrada alcuni uomini seguono la scena, scatto dopo scatto, come se fosse la sceneggiatura di un film.
Ma un film proprio non è.
L’interruttore che mette in moto il meccanismo della strage è un segnale in codice.
Una telefonata ” sbagliata”, entrata nella storia di sangue di Capaci.
” Pronto Mario? ”
” No, ha sbagliato numero.
” Il cellulare di La Barbera squilla alle 17:02. Sa che quella telefonata non è un errore ma un segnale preciso. Con lui, in un casolare vicino alla statale, ci sono altri sette uomini. Sono al vertice di Cosa Nostra. La Barbera sale sulla sua Lancia Delta e imbocca la strada che corre parallela alla Palermo – Punta Raisi. Arrivato ad un punto prefissato si ferma e aspetta. Ferrante e Salvatore raggiungono l’aeroporto. Gioè e Troìa inseriscono una ricevente vicino a 500 chilogrammi di esplosivo, in un tombino dell’autostrada. Poi salgono con Brusca e Battaglia sulle colline di Capaci, sotto lo sperone di rocce bianche che interseca il profilo di Montagna Grande. Dall’autostrada, spuntano 3 Fiat Croma. La Barbera riparte e le segue a distanza. Alle 17:49 chiama Gioè sulle colline. Meno di un secondo e la telefonata s’interrompe. Sono le 17,56 minuti e 48 secondi, l’uomo della collina, Giovanni Brusca, sfiora il tasto del comando a distanza. L’impulso raggiunge il tombino dove è collocata la ricevente. I cinque quintali di tritolo, seppelliti nel canale di scolo, divampano, il boato è enorme, solleva cento metri di asfalto. Si apre una voragine, larga trenta metri e profonda otto, che risucchia metallo, uomini, alberi, massi. Sull’altra carreggiata una Fiat Uno verde con due turisti austriaci, e una Opel Corsa sono investite dai detriti. Fiamme e fumo, poi solo silenzio. Nella prima auto catapultata a 5 metri gli agenti di scorta muoiono sul colpo: Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Nella seconda, spezzata in due tronconi, il giudice e la moglie, respirano ancora. Una pattuglia della polizia accosta. Giovanni Falcone e Francesca Morvillo moriranno all’Ospedale Civico di Palermo, un’ora più tardi. L’autista del giudice e gli altri due poliziotti, feriti gravemente, sopravvivono. L’uomo della Lancia Delta è ormai lontano. Costanza è uno dei sopravvissuti. La rabbia è immensa, lo sdegno del Paese è totale. Durante i funerali di Giovanni Falcone e degli uomini della scorta Rosaria, la vedova di Vito Schifani è in lacrime e urla la sua tristezza. L’esplosione di Capaci deflagra fino a Montecitorio. Il 25 maggio viene eletto il nuovo presidente della Repubblica: Oscar Luigi Scalfaro, 73 anni, democristiano. Lo Stato e la politica sono sotto accusa per la morte di 5 funzionari dello Stato. L’Associazione Nazionale Magistrati denuncia: il potere politico è fondato sul consenso criminale. Ci saranno manifestazioni: a un mese dalla strage di Capaci, 100 mila persone arrivano a Palermo da tutta Italia per sfilare contro la mafia. Sono in gran parte giovanissimi, gli stessi volti che anni dopo vedremo sfilare a Locri, in Calabria, pochi giorni dopo l’uccisione di Francesco Fortugno. Il governo Andreotti approva norme antimafia di emergenza: carceri speciali per i boss, indagini segrete di polizia e premi per i pentiti. Il ministro della Giustizia Claudio Martelli propone Paolo Borsellino come Superprocuratore antimafia. Intanto il pentito Antonino Calderone avverte: ci saranno altri delitti eccellenti. Paolo Borsellino lo ripeteva come fosse un’ossessione: “Il mio problema è il tempo.” Lo diceva in quei cinquantasette giorni dell’estate 1992. Morto Falcone, Paolo Borsellino sapeva di essere per Cosa Nostra il primo della lista. Il 19 luglio 1992 a Palermo è una calda domenica. Le indagini sulla morte di Giovanni non competono a Borsellino, ma alle sette del mattino il procuratore Giammanco gli comunica che finalmente potrà occuparsi anche delle indagini su Palermo e provincia, come lui da tempo richiedeva. Paolo Borsellino pranza in famiglia nella casa di Villagrazia di Carini. Poi, nel tardo pomeriggio, decide di far visita all’anziana madre. Tra il mare e la casa della signora Maria a Palermo c’è un’autostrada, e quel pomeriggio le tre “croma” blindate su cui viaggiano il giudice e la sua scorta transitano vicino allo svincolo di Capaci, dove una striscia di vernice rosso sangue sul guard-rail già ricorda la strage del 23 maggio. Arrivati in città, raggiungono via Mariano D’Amelio, una strada chiusa, ostruita al fondo da un muro di tufo che recinta un cantiere edile. Paolo Borsellino fa giusto in tempo a citofonare al numero civico 21, quando alle sue spalle esplode una Fiat 126 carica di tritolo. Muore sul colpo e con lui i sei uomini della scorta: Antonio Vullo, Emanuela Loi, Walter Cusina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli e Agostino Catalano. Così si moriva a Palermo. Soli. Senza la protezione morale dello stato che si serve. Senza neanche il tempo di vivere. Senza un saluto, senza aver chiuso l’ultima pagina di un inchiesta. Soli e minacciati… lavorando e basta. Soli… Semplicemente soli. Ma resta la memoria. Piero Grasso ex presidente del Senato e per molti anni uno dei punti di snodo dell’Antimafia. Falcone come Borsellino avevano capito che seguendo l’odore dei soldi si sarebbe giunti al cuore del sistema criminale, ma senza l’apporto dei pentiti il cammino sarebbe stato ancora lungo. Scriveva Giovanni Falcone: “Un uomo fa quello che è suo dovere fare, quali che siano le conseguenze personali, quali che siano gli ostacoli, i pericoli o le pressioni. Questa è la base di tutta la moralità umana.” “Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.” “Non è retorico nè provocatorio chiedersi quanti altri coraggiosi imprenditori e uomini delle istituzioni dovranno essere uccisi perchè i problemi della criminalità organizzata siano finalmente affrontati in modo degno in un paese civile.” “Il vero tallone d’Achille delle organizzazioni mafiose è costituito dalle tracce che lasciano i grandi movimenti di danaro connessi alle attività criminali più lucrose” “Credo dovremmo ancora per lungo tempo confrontarci con la criminalità organizzata di stampo mafioso. Per lungo tempo, non per l’eternità: perché la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una sua fine”. “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.” Oggi sappiamo molto più di prima sugli omicidi e sulle stragi di mafia. Oggi conosciamo i nomi dei responsabili. Perché abbiamo le prove. E questa nostra consapevolezza ci rende un po’ più forti. Per non dimenticare.