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La libertà di espressione è un diritto fondamentale sancito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Oggi è la giornata mondiale della libertà di stampa. “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”. Così recita l’articolo 19 della Dichiarazione universale dei Diritti umani. A 60 anni dalla promulgazione di questi principi, questo diritto ancora oggi è però largamente disatteso.
L’informazione libera, è il cuore della democrazia e dello sviluppo socio-economico. La storia ci insegna che i regimi antidemocratici hanno considerato l’informazione-libera la prima minaccia fondando sulla censura e sul-controllo-del consenso la propria sopravvivenza. Chi sono le vittime predestinate di queste violazioni dei diritti umani? sono giornalisti indipendenti, schiacciati dal processo di acquisizione della centralità dell’informazione da parte di poteri che non tollerano voci fuori dal coro.
Attacchi alla libertà di stampa e di espressione sono così all’ordine del giorno in ogni continente. Il lavoro giornalistico è reso sempre più pericoloso per le minacce personali e alle famiglie, per i ferimenti, le violenze, gli attentati, i sequestri-e-gli-omicidi. Tant’è che oggi, viene da farsi la seguente domanda: vale ancora la pena, oggi, morire di giornalismo?
E’ un diritto inalienabile, quello della libertà di parola, ma ancora oggi ignorato, vilipeso e calpestato in alcuni paesi del mondo. Di recente è stato diffuso dal Comitato per la protezione dei giornalisti con sede a New York, un rapporto contenente l’elenco di 10 paesi dove il diritto di stampa e libera espressione non è osservato come prevede la carta delle Nazioni Unite. Il primo di questo elenco è l’Eritrea, che l’ONG ha definito come il paese più censurato del mondo, seguita da Corea del Nord, Turkmenistan, Arabia Saudita, Cina, Vietnam, Iran, Guinea Equatoriale, Bielorussia e Cuba. I primi tre (Eritrea, Corea del Nord e Turkmenistan) usano i media “come megafono dello Stato, il giornalismo indipendente è condotto all’esilio e i pochi giornalisti stranieri autorizzati ad entrare sono attentamente monitorati”. Stati come l’Arabia Saudita, la Cina, il Vietnam e l’Iran, invece, sono responsabili di aver “incarcerato e molestato i giornalisti e le loro famiglie” oltre ad aver condotto una campagna di “sorveglianza digitale e censura di Internet e dei social network”. Le classifiche, sono basate su un ampio raggio di violazioni a cominciare dalle restrizioni sui media privati o indipendenti, passando per leggi penali sulla diffamazione fino al blocco di siti Web e la sorveglianza dei giornalisti da parte delle autorità o l’ostacolamento della diffusione delle notizie tramite hacker o trolling mirati.
Per esempio lo Stato eritreo, mantiene un monopolio legale dei media di trasmissione a tal punto che i giornalisti dei media statali seguono la linea editoriale dettata dal governo per paura di rappresaglie. Fonti di informazione alternative come Internet e le trasmissioni satellitari di stazioni radio situate in esilio hanno un campo di applicazione molto limitato, a causa delle interferenze dei loro segnali e della scarsa qualità del servizio Internet, che è controllato dal governo. Un controllo assoluto degli organi di stampa-tale che nel 2001 il governo ha fatto chiudere tutti i media indipendenti. Durante quell’ondata repressiva diversi giornalisti sono stati incarcerati e a tutti loro è stato negato il diritto ad un processo. Attualmente, ci sono almeno 16 giornalisti dietro le sbarre nel Paese, l’Eritrea, infatti, è considerato “il peggior carceriere di giornalisti nell’Africa sub-sahariana”.
Reporter Without Borders ogni anno stila la classifica della libertà di stampa nel mondo. Si tratta di una classifica annuale in cui viene valutata la situazione dei vari Paesi, esclusi quelli più piccoli, relativa alla libertà di stampa focalizzandosi soprattutto sulle pressioni e gli attacchi diretti ricevuti dai media. Per quanto riguarda la classifica 2020 stilata da Reporter Without Borders, l’Italia si trova al 41° posto di questa speciale graduatoria, dietro a tutti gli altri principali Stati europei e anche a diversi Paesi in via di sviluppo. Al primo posto del World Press Freedom Index troviamo la Norvegia, con il podio che è tutto riservato al Nord Europa. Al secondo posto infatti si trova la Finlandia e al terzo la Danimarca. Con Svezia e Olanda a occupare le posizione successive, il quadro è completo.
Davanti all’Italia però ci sono molti Paesi provenienti da zone del mondo economicamente meno floride della nostra: dalla Jamaica fino alla Namibia, passando per Costa Rica, Ghana e Burkina Faso. In Europa ci sono la Germania (11°), il Belgio (12°), la Spagna (29°) e la Francia (34°). Rispetto ai report 2019 e 2018, anni in cui veniva indicata al 43° e al 46° posto l’Italia, con il 41° posto del 2020, ha fatto qualche passo in avanti.
Già introdotta nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo nel 1948, la libertà dell’informazione è riconosciuta come diritto fondamentale anche nel “Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici”, entrato in vigore nel 1976, e nella “Convenzione europea sui diritti umani”.
Il 3 maggio del 1991, alcuni giornalisti africani, riuniti nella capitale della Namibia per un seminario sulla promozione di media liberi e pluralisti, elaborano la dichiarazione di Windhoek, in difesa del diritto di esprimere liberamente le opinioni e avere accesso a fonti di informazioni indipendenti. Da allora la stampa è divenuta più indipendente e pluralista in molti paesi, come mostrano i rapporti annuali redatti dall’associazione non governativa Freedom House dal 1984 a oggi. Credo nella libertà di espressione, cioè giornali e televisioni liberi di criticare il potere.
“Cari telespettatori, questa potrebbe essere l’ultima puntata del Fatto”. Iniziava così la lettera con al quale Enzo Biagi apriva la trasmissione numero 814.
Era il 2001 e mancavano poche settimane dalle elezioni politiche. A seguito di due interviste realizzate da Biagi: una ad Idro Montanelli, nella quale il giornalista paragonò Silvio Berlusconi ad un virus, e una a Roberto Benigni dove il comico mise alla berlina la campagna elettorale della Casa delle Libertà, il programma fu accusato dal centrodestra di “faziosità”. E venne cancellato.
“Non è un gran giorno per l’Italia: per quello che succede in casa e per quello che si dice fuori. A Milano lo sapete, un piccolo aereo da turismo è andato a sbattere contro il Pirellone, orgoglio dell’architettura italiana e uno dei simboli della città. E il pensiero corre subito alle torri di New York. Disgrazia. Ma c’è, anche, chi all’estero parla di crimine. Da Sofia il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non trova di meglio che segnalare tre biechi individui, in ordine alfabetico: Biagi, Luttazzi, Santoro che, cito tra virgolette: “Hanno fatto un uso della televisione pubblica – pagata con i soldi di tutti – criminoso. Credo sia un preciso dovere della nuova dirigenza Rai di non permettere più che questo avvenga”. Chiuse le virgolette. Quale sarebbe il reato? Stupro, assassino, rapina, furto, incitamento alla delinquenza, falso e diffamazione? Denunci. Poi il presidente Berlusconi, siccome non prevede nei tre biechi personaggi pentimento o redenzione – pur non avendo niente di personale – lascerebbe intendere, se interpretiamo bene, che dovrebbero togliere il disturbo.
Signor presidente Berlusconi dia disposizione di procedere, perché la mia età e il senso di rispetto che ho per me stesso, mi vietano di adeguarmi ai suoi desideri. Sono ancora convinto che in questa nostra Repubblica ci sia spazio per la libertà di stampa. E ci sia, perfino, in questa azienda che, essendo proprio di tutti, come lei dice, vorrà sentire tutte le opinioni. Perché questo, signor presidente, è il principio della democrazia. Sta scritto, dia un’occhiata, nella Costituzione. In America, ne avrà sentito parlare, Richard Nixon dovette lasciare la Casa Bianca per un’operazione chiamata Watergate, condotta da giovani cronisti alle dipendenze di quel grande e libero editore che era la signora Katharine Graham proprietario della Washington Post. Questa, tra l’altro, viene presentata come televisione di Stato, anche se qualcuno tende a farla di governo, ma è il pubblico che giudica. Nove volte su dieci, controllare, “Il Fatto” è la trasmissione più vista della Rai. […]