ì
Iniziamo con le parole di Piero Angela, all’epoca conduttore sgomento per le immagini e la cronaca dell’omicidio di Bob Kennedy.
Ci sono uomini che avrebbero potuto cambiare in meglio il nostro modo di vivere, i nostri valori, uomini che avrebbero dato un contributo al Paese e forse anche all’Umanità, uomini a cui è stata tolta la vita prima o durante un percorso. Uno di loro era proprio Robert Francis Kennedy, chiamato amichevolmente e amorevolmente Bob, uno dei tanti, troppi Kennedy che ha subito una fine atroce ancora molto giovane, ucciso nella hall dell’hotel Ambassador di Los Angeles, il 6 giugno del 1968.
Solo due mesi prima l’America ha assistito sgomenta a un altro assassinio, quello di Martin Luther King, a cui lo stesso Bob si sentiva molto vicino. La sera di quell’omicidio Robert Kennedy doveva parlare in un sobborgo di afroamericani a Indianapolis. Era stato lui a dare la notizia e mentre in molte altre parti degli Stati Uniti quella notte ci furono duri scontri e proteste, ad Indianapolis la situazione rimase calma.
La storia di Bob Kennedy la facciamo partire dalla laurea all’università di Harvard nel 1948, dopo una breve esperienza nella marina militare. Consegue la specializzazione in Legge all’Università della Virginia nel 1951 e guida la campagna per le elezioni al Senato (1952) che vede candidato, poi vincente, il fratello maggiore John.
Appena uscito dalla facoltà di giurisprudenza, Kennedy si unisce alla Divisione Criminale del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti nel 1951. Nel 1953 diviene consigliere della sottocommissione per le indagini del Senato sotto il senatore Joseph McCarthy. Kennedy lascia la posizione solo sei mesi dopo, obiettando alle ingiuste tattiche investigative di McCarthy che stava dando vita al temuto e odioso maccartismo e contro il quale si scontrerà alle primarie delle elezioni presidenziali. Nel 1954 Kennedy si unisce alla sottocommissione permanente per le indagini del Senato come consigliere principale per la minoranza democratica. Kennedy ha giustamente espresso il suo approccio per aiutare le minoranze a raggiungere gli stessi diritti in un discorso agli studenti sudafricani: Ogni volta che un uomo si batte per un ideale, o agisce per migliorare la maggioranza degli altri, o si batte contro l’ingiustizia, invia scatenando una piccola increspatura di speranza, e attraversandosi a vicenda da un milione di diversi centri di energia e audacia, quelle increspature costruiscono una corrente che può spazzare giù le pareti più potenti dell’oppressione e della resistenza.”
Che Bob Kennedy fosse illuminato, un idealista con i piedi per terra lo dimostra anche questo bellissimo discorso in cui Pierfrancesco favino traduce e recita un suo discorso sul PIL.
Robert Kennedy si costruisce un nome entrando tra i principali consulenti legale del senato che lavorano per le udienze del “Comitato anti-rackets”, nel 1956. Lascia il comitato nel 1959 per guidare e sostenere la campagna presidenziale del fratello. Durante la presidenza di John Fitzgerald Kennedy, Robert svolge un ruolo di consigliere chiave nelle questioni cubane dell’invasione della baia dei porci del 1961 e la crisi dei missili 18 mesi più tardi, nell’escalation dell’azione militare del Vietnam e la diffusione e l’allargamento del Movimento per i Diritti Civili e della relativa violenza di rappresaglia. Nel 1960 Kennedy gestìsce la campagna presidenziale del fratello John. Quando viene eletto JFK, Kennedy fu nominato procuratore generale degli Stati Uniti e diviene uno dei consiglieri di gabinetto più vicini a JFK. Quando JFK fu assassinato nel 1963, Kennedy si dimette da procuratore generale nel settembre successivo e annuncia la sua intenzione di candidarsi per un seggio al senato. La sua carriera prosegue in modo travolgente.
Vince le primarie in Indiana e Nebraska, perde in Oregon, ma vince poi nel Dakota del Sud e in California, aprendosi la strada per la candidatura alla Casa Bianca.
Nella notte tra il 5 giugno e il 6 giugno 1968, nella sala da ballo dell’Ambassador Hotel di Los Angeles, Bob Kennedy incontra i suoi sostenitori per festeggiare la vittoria elettorale conseguita nelle primarie della California. Queste sono le ultime parole prima di essere ucciso pochi istanti dopo.
Muore il 6 giugno all’età di 42 anni, la sua promettente amministrazione presidenziale finisce prima che inizi.
L’assassino, reo confesso, fu subito arrestato e poi condannato. Si trattava di Sirhan B. Sirhan, cittadino giordano di origine palestinese, che motivò il suo gesto come ritorsione per il sostegno di Kennedy a Israele nella guerra dei sei giorni iniziata un anno e un giorno prima dell’attentato.
Una motivazione poco convincente che ha lasciato negli anni molti dubbi, lasciando aperta la strada della stessa cospirazione che aveva portato all’omicidio di John Kennedy da parte di una lobbie e avversari politici. Qui ancora Veltroni definisce lo spessore politico del personaggio.
Quei colpi di pistola hanno spento per molti anni la speranza di molti americani (e non solo) in un mondo migliore e hanno cambiato il destino di una generazione. “Una generazione che in Europa si era mobilitata nelle piazze, nelle università, nella Sorbona a Parigi, a Valle Giulia a Roma e che si era riconosciuta in quell’America, era stata spenta da un atto di violenza, l’ennesimo in un America divisa tra bibbia e ideali da una parte e da armi e violenza dall’altra. La contraddizione di un Paese che Kennedy voleva riequilibrare , se non lo avessero ucciso, ci sarebbe probabilmente riuscito.
Il 6 giugno il corpo di Bob Kennedy venne portato nella Cattedrale di San Patrizio a New York. Il mattino seguente una fila di persone in lutto che si estendeva per 25 isolati aspettava di omaggiare per l’ultima volta la sua salma.
Nel pomeriggio centinaia di altre migliaia di persone salutavano Kennedy mentre guardavano la sua bara passare attraverso un treno funebre in rotta verso Washington.
Un treno “lento e desolato” che attraversava parte dell’America e migliaia di persone, agricoltori, operai, bianchi, neri, ricchi, borghesi, poveri, tutti a osservare con sconcerto e rendere il proprio tributo a quel treno che portava un simbolo, quello che gli assassini, i cospiratori, i nemici con l’ottusità della violenza hanno solo accresciuto.