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2 agosto 1980, le 10,25 di un sabato qualsiasi.
Un uomo entra nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione, posa una valigia con 25 chilogrammi di esplosivo di tipo militare accanto al muro portante e si dilegua. 85 morti e 200 feriti.
41 anni dopo un processo vaglia le prove contro i mandanti.
Una stazione d’agosto. Il caldo non da tregua, la confusione sotto le pensiline, gente in fila per un biglietto, qualcuno perde il treno, altri trovano la loro coincidenza, altri ancora aspettano figli, nipoti, nonni, madri, parenti lontani. Tassisti attendono i clienti sotto il sole. Arrivi e partenze, sogni e speranze, voglia di mare e riposo. Nulla è diverso intorno alle 10,25 del 2 agosto 1980, a Bologna. Nella sala d’aspetto di seconda classe c’è chi legge quotidiani, i bimbi non stanno fermi e corrono felici, i loro genitori li guardano orgogliosi, i boy-scout sono accampati in un angolo, un signore osserva il tabellone. Chi fuma una sigaretta, chi si incontra per la prima volta o si rivede dopo anni. Qualcuno deve raggiungere città lontane. Storie di gente comune, di vita quotidiana, in una stazione come tante altre, a quell’ora, nel mondo. Volti, occhi, mani, sguardi, discorsi. Accade 41 fa alla stazione di Bologna, prima che qualcosa la trasformi in una grande catasta di macerie di dolore, di orrore, di morte come si può sentire in questi primi appelli della radio del centro operativo di Bologna.
Anche i tassisti sono in agitazione. Chiamano alla centrale
Quanto può essere terribile il potere distruttivo di ventitré chilogrammi di esplosivo, una miscela di cinque kg di tritolo e T4 denominato “Compound B” di tipo militare, potenziata da diciotto kg di gelatinato, ovvero nitroglicerina a uso civile? Un uomo approfitta della confusione, entra nella sala d’aspetto di seconda classe, porge la valigia accanto al muro portante e se ne va, sparisce, si volatizza. E pochi minuti dopo la stazione diventa un inferno. Per compiere una strage ci vogliono coperture, finanziamenti corposi e protezioni occulte, documenti falsi, competenze militari, mesi di preparazione, soprattutto si deve mettere in campo un’organizzazione di tipo criminale. Poi, dopo la strage, bisogna fuggire, nascondersi in luoghi sicuri, disporre di case, appartamenti, covi. Alla stazione di Bologna, una bomba distrugge, dilania, seppellisce, disintegra uomini, donne, bambini, suppellettili, travi, binari, treni e cose. 85 morti, oltre 200 feriti. La strage più grave in Italia, in tempo di pace. Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini si reca subito nella città colpita.
Non è la prima volta. Quell’urlo di morte di vittime innocenti lo abbiamo già sentito in Piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969), Peteano di Sagrado, Questura di Milano, Piazza della Loggia a Brescia, a San Benedetto Val di Sambro sul treno Italicus e sul rapido 904, in via Fauro a Roma via dei Georgofili a Firenze e in via Palestro a Milano. Eccidi efferati si consumano sempre durante le stagioni dei grandi cambiamenti politici e proprio in mezzo alle principali trasformazioni sociali del Paese. La strage di Bologna è però simbolica. Non solo per la quantità di morti e feriti e per l’obiettivo chiaro e trasparente: Bologna, il crocevia di tutti i binari che portano gente da Nord verso Sud, da Sud verso Nord, lo snodo ferroviario più importante. Quella strage viene pianificata in una stazione d’agosto, per compiere una carneficina. Nulla resta più come prima.
Negli anni, la stazione viene ricostruita, non è più la stessa di allora, l’alta velocità le ha trasformato la forma, cambiato la struttura, ma oggi si chiama “Bologna 2 agosto”, un cambio di nome che possiede un valore altamente simbolico. E anche oggi, nella sala d’aspetto intitolata “Torquato Secci”, si attendono nuovi treni, si legge il giornale, si parla, e lo sguardo oltrepassa quello squarcio nel muro. La lapide è sempre lì accanto e rappresenta la dura realtà. Quei nomi e cognomi, quelle loro età, oggi si leggono alzando il mento fino in fondo, sopra il cratere della bomba, davanti a una targa, a futura memoria. I viaggiatori si fermano, non dimenticano, lo sanno, non devono mai dimenticare.
Poi c’è il percorso individuale e collettivo di uomini e donne. Il loro privato dolente e la rabbia si sono tradotti in impegno civile: un modello di partecipazione democratico che difende persone colpite negli affetti, altrimenti lasciate sole nel loro destino. Paolo Bolognesi è il Presidente dell’associazione 2 agosto.
AGIDE MELLONI IL 2 AGOSTO 1980 GUIDA PER 15 ORE CONSECUTIVE IL BUS 37 DALLA STAZIONE ALL’OBITORIO. UN CALVARIO.
I mandanti delle stragi della strategia della tensione che hanno insanguinato il nostro paese dal 1969 al 1980 sono rimasti per lungo tempo nell’ombra. Li abbiamo intravisti più volte tra le carte delle inchieste, nei rapporti riservati dei servizi segreti coperti dagli omissis, durante i processi.
Alcuni dei loro nomi oggi emergono nell’ultima indagine sull’eccidio alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 che sfocia nel processo contro i mandanti. Sono Paolo Bellini, ex militante di Avanguardia Nazionale, collaboratore di giustizia e informatore dei servizi, sarebbe uno degli esecutori della strage, in concorso con gli esponenti dei Nar già condannati (Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini, Luigi Ciavardini), Licio Gelli e Umberto Ortolani mandanti e finanziatori, il capo dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato mandante, Mario Tedeschi, piduista e direttore della rivista di destra “Il Borghese”, uno degli organizzatori “per aver coadiuvato D’Amato nella gestione mediatica della strage e nelle attività di depistaggio delle indagini”. Per depistaggio e/o falso in procedimento penale sono andati a processo l’ex generale e dirigente del Centro Sisde di Padova Quintino Spella, poi deceduto, l’ex carabiniere del nucleo investigativo di Genova Piergiorgio Segatel e il responsabile amministrativo di alcune società legate ai servizi Domenico Cadracchia. L’inchiesta nasce da una corposa memoria difensiva di 604 pagine presentata dai legali dell’Associazione dei familiari delle vittime del 2 Agosto alla Procura di Bologna.
“Segui il denaro e troverai Cosa nostra”, ripeteva sovente il giudice Giovanni Falcone. Così anche gli inquirenti impegnati nell’ultima inchiesta sulla strage di Bologna seguono come segugi l’odore dei soldi e del potere.
È il 13 settembre 1982. Il venerabile della Loggia massonica coperta P2 Licio Gelli viene arrestato negli uffici della banca svizzera Ubs di Ginevra mentre sta ritirando ingenti somme di denaro. Tra le tante carte viene ritrovato un manoscritto nascosto in una tasca ricucita della giacca di Licio Gelli nel momento del suo arresto e mai giunto alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia massonica P2: porta l’intestazione “Bologna – 525779 – X.S.”, con il numero corrispondente ad un conto corrente avviato alla Ubs di Ginevra.
All’atto del sequestro emergono poi tre appunti indicati con le sigle G16, G18, G19.
Gli investigatori bolognesi collegano il documento “Bologna – 525779 – X.S.” ad altre informazioni in loro possesso, e scoprono che la prima movimentazione del denaro parte in realtà nel febbraio 1979, la stessa data che la Procura generale di Bologna inserisce nelle imputazioni come il momento di inizio della presunta condotta preparatoria all’attentato.
E poi restano i ricordi di quel 2 agosto 1980, quando avevo neanche 23 anni e dovevo, come tutti, andare al mare, ma mi trovai a dover raccontare qualcosa che era troppo più grande di me. Mi chiesi da che parte dovevo stare come giornalista. Scelsi da quel momento di stare dalla parte delle vittime.
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