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A distanza di vent’anni il ricordo di ciò che è avvenuto nei giorni precedenti il G8 di Genova, durante e dopo, è svilente da qualunque parte lo si osservi ma il tempo scolora le cose e polarizza la memoria. Molti ragazzi non sanno niente di quell’evento, gonfio di storie nella storia e angolazioni opposte.
Per capire quello che è successo c’è bisogno di conoscere gli attori e il contesto.
L’11 giugno, un mese prima dell’evento, cambia il governo, torna in carica per la seconda volta Silvio Berlusconi e il ministro dell’interno è Claudio Scajola. Siamo a tre mesi esatti dall’11 settembre.
Tutto parte con la scelta di Genova come sede del G8 che, per intenderci era un forum politico che riuniva gli otto Paesi più industrializzati del mondo: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti e i rappresentanti dell’Unione europea.
Il gruppo si riunisce come forum economico ogni anno e discute questioni di politica internazionale, per definire i futuri assetti del mondo. A contrapporsi a questa riunione e ai significati che si porta appresso c’è il movimento no global. È un periodo storico in cui la globalizzazione è il principale argomento di dibattito in tutto il mondo occidentale. Globalizzazione, intesa come processo economico per il quale mercati, produzioni, consumi e persino i modi di vivere e pensare vengono connessi su scala mondiale, grazie ad un continuo flusso di scambi che omogeneizza tutto. La volontà di una manifestazione politica è garantita anche da Vittorio Agnoletto e Luca Casarini, portavoce del Genoa Social Forum, nato a Genova nel 2000 come “Patto di Lavoro”, composto da ben 1187 sigle tra cui associazioni, partiti, centri sociali, sindacati e ONG italiane ed estere. Agnoletto è noto soprattutto per essere il presidente della Lila, la lega italiana per la lotta all’Aids.
In mezzo a loro ci sono però i Black bloc, nome che rivela l’esistenza di persone di diverse nazionalità unite allo scopo di attuare una protesta violenta, devastazioni, disordini e scontri con le forze dell’ordine. Una strategia priva di senso se non quella di creare caos.
L’Italia si trova ad ospitare il G8, come sette anni prima a Napoli, e vuole farsi trovare pronta ma fin dalla scelta della città, Genova, vengono fatti errori che si riveleranno fatali.
I fatti vanno da mercoledì 18 luglio a domenica 22 luglio e partono nel migliore dei modi, con dibattiti e un clima di festa.
Giovedì si riparte con una manifestazione di rivendicazione dei diritti degli extracomunitari e degli immigrati a cui partecipano molti gruppi stranieri, cittadini genovesi, rappresentanti della Rete Lilliput e anche un piccolo gruppo di anarchici; il tutto per un totale di ben 50.000 persone ma non si registrano incidenti, tranne qualche lancio di bottiglia.
Venerdì 20 luglio i cortei si moltiplicano.
Palazzo Ducale, il luogo in cui si è svolge il vertice G8 è una fortezza. La polizia di Genova divide la città in varie zone, altamente monitorate proprio perché consapevole del rischio incidenti o attentati.
Molti attivisti sono comunque decisi a violare la zona rossa, l’area riservata nel centro della città vietata al pubblico per ragioni di sicurezza.
Durante la mattina i Black Bloc però creano il vero elemento disfunzionale alla grammatica della protesta. Il principio è quello di aggirarsi per il centro della città distruggendo vetrine, incendiando mezzi e cassonetti, attaccando le banche e lo fanno a ritmo di tamburi.
I black bloc poi si disperdono e si riuniscono altrove, pronti a creare altri disordini. Questa volta verso il carcere di Marassi con le molotov, dove gli agenti della polizia penitenziaria riescono a respingerli.
Un gruppo di loro si dirige in piazza Manin dove riesce a creare altra confusione ma in quella zona ci sono persone della rete Lilliput, i manifestanti più pacifici e sono lì senza alcun intento aggressivo.
Queste le parole di Marina Pellis una testimone:
Le Tute Bianche, un movimento di disubbidienza civile affiliato principalmente ai centri sociali italiani non violenti, percorrono un tragitto autorizzato verso Piazza Verdi, nei pressi della stazione ferroviaria di Brignole. Un corteo di circa 10mila persone, ma alcuni tra loro sono vestiti con armature di polistirolo, gommapiuma e con in mano bottiglie di plastica e scudi di plexiglass. In via Tolemaide, a circa 500 metri dalla stazione di Brignole, il corteo viene aggredito da un reparto speciale dei carabinieri con lacrimogeni, nonostante il percorso delle Tute Bianche sia stato autorizzato
Durante gli scontri vengono posti dei cassonetti nella carreggiata, allo scopo di rendere difficoltoso il movimento dei mezzi e, di fronte a uno di questi, si ferma un Land Rover Defender dei carabinieri dal quale viene sparato un colpo di pistola da Mario Placanica che uccide Carlo Giuliani, uno dei manifestanti.
È un evento drammatico che stravolge completamente lo scenario, e che nei mesi, negli anni a seguire dividerà l’opinione pubblica, la politica e tutta la società civile italiana
Il modo in cui è rimasto ucciso Carlo Giuliani ha più ricostruzioni e il perito Carlo Torre, chiamato a investigare sul tema dichiara.
I carabinieri e polizia iniziano le cariche e i pestaggi nei confronti dei manifestanti in piazza e nelle vie limitrofe e, riescono a prendere il controllo dell’area;
È un finale di giornata violentissimo, con scene a cui non siamo abituati e che lasciano tutti attoniti. Sono i primi anni in cui le televisioni aumentano e insieme a loro i video, le dirette e l’eccezionalità di ogni evento aumenta smodatamente il suo significato di pari passo con le immagini che arrivano. I disordini, la morte, la violenza, la confusione, le ricostruzioni discordanti, le urla, il sangue, il panico e l’inadeguatezza a vivere e raccontare la portata dei fatti creano un profondo senso di disagio nel Paese.
Eppure, lo schema è semplice: 1000 black bloc in mezzo a 200.000 manifestanti provocano la polizia in ogni modo, questi reagiscono ma se la prendono con i manifestanti pacifici, mentre ogni volta i violenti si disperdono per creare disordine da un’altra parte.
Filippo Ascierto di An che assiste ai disordini dai monitor dei carabinieri però dichiara.
La frustrazione delle forze dell’ordine culmina con episodi di violenza senza precedenti verso le persone fermate, come ricorda lo psicologo Evandro Fornasier.
È sabato 21 e non è ancora finita. Anzi. I fatti accaduti il giorno precedente, la morte di Carlo Giuliani trasfigurano la realtà, la gravità è tale che arrivano diverse richieste di annullamento della manifestazione comunque respinte dai vertici del Genoa Social Forum; e anche questa volta nei cortei si infiltrano gruppetti di manifestanti violenti, a completare l’opera di scontri, incendi e distruzioni di auto, banche e negozi.
Intorno alle 21 di sabato una volante della polizia viene mandata a verificare la presenza di un centinaio di persone davanti alla scuola Diaz, dove dormono 93 persone tra ragazzi e giornalisti in gran parte stranieri, la maggior parte dei quali accreditati; Tutti gli occupanti vengono arrestati e la maggior parte picchiata, i giornalisti accorsi alla scuola Diaz osservano decine di persone portate fuori in barella, uno dei quali rimasto in coma per due giorni e con danni permanenti, come ricorda Mario Portanova giornalista de “Diario”.
Le prime immagini mostrate dal giornalista Gianfranco Botta mostrano muri, pavimenti e termosifoni macchiati di sangue. Tra i 63 feriti 3 di loro sono in prognosi riservata: la ventottenne studentessa tedesca di archeologia Melanie Jonasch, vittima di un trauma cranico cerebrale con frattura della rocca petrosa sinistra, ematomi cranici vari, contusioni multiple al dorso, spalla e arto superiore destro, frattura della mastoide sinistra, ematomi alla schiena e alle natiche. Nel successivo processo per l’irruzione all’interno della scuola Diaz, il vicequestore aggiunto Michelangelo Fournier testimonia questo:
In questi casi la politica dovrebbe tenersi lontana da conclusioni nell’immediato ma come potete immaginare la reazione fuori e dentro al Parlamento risultò isterica e priva di tutte le informazioni per poter fare affermazioni sensate. Affermazioni che si basavano ad esempio su prove che erano state alterate dalle forze dell’ordine per giustificare azioni autoritarie del tutto illegittime come dichiararono in seguito Filippo Saltamartini, segretario nazionale del sindacato di polizia e il ministro Claudio Scajola.
I fatti sono questi, il resto è storia, vento e polvere che si portano via vicende come queste, senza che qualcosa di sostanziale, cambi. Anche il disordine ha bisogno di un ordine, anche l’ordine ha bisogno di buon senso.
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