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10 aprile 1991.
Alle 22,25, il traghetto Moby Prince ha lasciato il porto di Livorno da una ventina di minuti e dopo poche miglia ha una collisione con la petroliera Agip Abruzzo. 140 morti, un solo sopravvissuto. Si faranno indagini, commissioni parlamentari. Nel processo di primo grado di Livorno gli imputati vengono assolti perché il fatto non sussiste. Il secondo grado di Firenze conferma le assoluzioni. Nel procedimento parallelo contro alcune manomissioni di bordo si parla di reati impossibili. Il terzo processo manda tutto in archiviazione. La commissione parlamentare si conclude con una relazione di 492 pagine che rappresenta un vero e proprio atto di accusa contro i possibili responsabili della tragedia.
E’ una bella sera di primavera. Il mare è calmo, la visibilità è di 5-6 miglia. Il Moby Prince è un traghetto della Navarma che ogni giorno compie lo stesso percorso. Livorno – Olbia, Olbia-Livorno, Livorno – Olbia, Olbia-Livorno. Così per giorni che diventano settimane, mesi, anni. Stessa tratta, stesso mare. Un mulo che macina miglia marine, solca le onde anche quando é brutto tempo, porta chi va in vacanza e chi torna al suo paese. Tutti sono sempre partiti, tutti sono sempre tornati. Non é mai accaduto nulla di strano. Un incidente, pur minimo. Niente.
Di quella sera di aprile, scrive Enrico Fedrighini nel suo libro “Moby Prince. Un caso ancora aperto” (Edizioni Paoline).
«Una leggera brezza salmastra mischiata ai vapori della ciminiera della nave penetra nelle narici e accarezza i volti dei pochi passeggeri rimasti sul ponte esterno del traghetto a osservare le luci della città».
Sono le 22,03. La nave passeggeri molla gli ormeggi e si allontana scivolando sulle acque scure e oleose. Destinazione Olbia. I passeggeri vengono accolti a bordo dalle note musicali di una canzone degli anni ’60, Quando, quando, quando. E dentro la nave accadono le solite cose: c’è chi si prepara per la notte, chi chiacchiera, chi beve una birra al bar. Piccole cose banali rappresentano per 140 persone gli ultimi istanti di vita.
Le 22,25. Il Moby Prince si infila nella fiancata della petroliera Agip Abruzzo, alta come un palazzo di dieci piani e lunga 280 metri. Il traghetto viene investito da 2700 tonnellate di petrolio fuoriuscito da una cisterna. Poi prende fuoco. Un rogo di vaste dimensioni disintegra uno dei gioielli della marineria civile italiana. 140 morti, un solo sopravvissuto. Dopo quattro giorni, la petroliera brucia ancora e un’onda nera minaccia l’isola di Gorgona. E’ la più grave tragedia che ha colpito la flotta italiana nel dopoguerra. La versione ufficiale parla di fitta nebbia, di un comandante distratto dalla partita di calcio, di una rotta sbagliata. Ma non è la verità. La nebbia non c’era, il comandante Ugo Chessa non era distratto, non aveva scelto una rotta pericolosa. E il tratto di mare intorno Livorno quella sera era assai affollato: navi, imbarcazioni e bettoline. Andavano e venivano, dentro e fuori il porto. Cosa stava accadendo? Lo racconta lo scrittore Enrico Fedrighini.
Compiamo un passo indietro. E’ appena terminata la Guerra del Golfo e quel giorno ci sono cinque navi militarizzate americane in rada a Livorno. Ce n’è una che sta trasbordando materiale bellico e armamento su altre ignote imbarcazioni. Un elicottero – non identificato, certamente non italiano – controlla dall’alto l’operazione. Alcune “bettoline” riforniscono di carburante le navi. Ma qualcosa va storto. Un’esplosione, un incendio. Alcuni testimoni parlano di vampate e bagliori che si sviluppano prima dell’impatto del “Moby Prince” contro la petroliera. Il traghetto transita poco lontano. All’improvviso un’imbarcazione sconosciuta lo sperona, poi si allontana. Il Moby Prince vira in modo brusco, il timone si blocca, l’impatto con l’Agip Abruzzo è ormai inevitabile. Da quel momento inizia la parte più angosciante del giallo. I radar impazziscono, le comunicazioni radio vengono disturbate. Un misterioso “cono d’ombra” mette il silenziatore ai disperati appelli del Moby Prince. Per ore va alla deriva, in fiamme, mentre i passeggeri attendono invano i soccorsi. Il relitto fumante verrà riportato in porto solo a mezzogiorno dell’11 aprile. La testimonianza di Enrico Fedrighini.
Iniziano le indagini. Dopo la collisione, la procura di Livorno apre un fascicolo per omissione di soccorso e omicidio colposo. Il processo di primo grado inizia il 29 novembre 1995. Quattro gli imputati: il terzo ufficiale di coperta dell’Agip Abruzzo Valentino Rolla; Angelo Cedro, comandante il seconda della Capitaneria di porto; l’ufficiale di guardia Lorenzo Checcacci; Gianluigi Spartano, marinaio di leva. In istruttoria vengono archiviate le posizioni dell’ armatore della Navarma Vincenzo Onorato e del comandante dell’ Agip Abruzzo Renato Superina. Il processo si conclude il 1 novembre 1997. Il presidente Germano Lamberti legge la sentenza: tutti assolti. Angelo Cedro, uno degli imputati.
Duro il commento di Loris Rispoli, presidente dell’associazione dei familiari vittime della Moby Prince.
Amareggiato Luchino Chessa, figlio del capitano della nave, morto nella strage.
La sentenza sarà parzialmente riformata in appello: la terza sezione penale di Firenze dichiara non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato.
E poi ci sono le manomissioni sul relitto; tracciati radar mai chiesti e altri con un’inspiegabile zona buia proprio sull’area della tragedia; processi senza colpevoli; dichiarazioni contraddittorie di alcuni protagonisti. E la contraffazione dell’unico filmato amatoriale girato a bordo, scampato all’incendio. Quando arriva nelle mani del magistrato il video presenta una giunzione effettuata in modo non professionale. Il nastro è stato tagliato e incollato con una parte di nastro vergine. Cosa si deve coprire? Il 10 aprile 1991, nel porto di Livorno, vi sono tracce della presenza di una nave, la October 2, la stessa sulla quale stava indagando la giornalista del Tg3 Ilaria Alpi, assassinata a Mogadiscio insieme al cameraman Miran Krovatin. Coincidenze? Ancora Enrico Fedrighini.
Il 22 gennaio 2018 la Commissione parlamentare d’inchiesta pubblica la relazione finale di 492 pagine che offre un’altra verità.
La tragedia non è riconducibile alla presenza di nebbia e alla negligenza del comando del traghetto
La nebbia è stata immotivatamente utilizzata come giustificazione del caos dei soccorsi coordinati dalla Capitaneria di porto allora comandata dall’ammiraglio Sergio Albanese
L’indagine della Procura di Livorno nel processo di primo grado si è rivelata carente e condizionata da fattori esterni
L’accordo assicurativo siglato due mesi dopo l’incidente tra gli armatori delle due navi coinvolte ha condizionato l’operato dell’Autorità giudiziaria, a dimostrazione di ciò, a seguito di tale accordo, l’Agip Abruzzo è stata dissequestrata prima della definizione della fase processuale di primo grado, impedendo ogni ulteriore approfondimento. L’accordo prevedeva che la società ENI si assumesse i costi relativi ai danni alla petroliera e di inquinamento e la società NAVARMA i costi di risarcimento delle vittime del traghetto, chiudendo, di fatto, ogni possibile ipotesi di responsabilità
Pur essendo la Moby Prince sotto sequestro, era comodamente accessibile a chiunque
L’indagine medico-legale è stata eseguita in maniera lacunosa, concentrandosi sul riconoscimento delle vittime, senza appurare le cause della morte di ciascuna vittima
L’Agip Abruzzo, al contrario di quanto riportato in fase di indagine processuale, si trovava in zona di divieto di ancoraggio. L’errore di posizionamento durante le indagini ha portato ad escludere ogni responsabilità al comando della petroliera
La Moby Prince ha subìto, per cause non chiare, un’alterazione nella rotta di navigazione che potrebbe aver influito sulle cause dell’impatto
La morte dei passeggeri e dell’equipaggio non è avvenuta per tutti entro trenta minuti, come invece riportato negli atti processuali
La Capitaneria di porto non aveva gli strumenti necessari per individuare la seconda nave, la Moby Prince, sebbene la responsabilità dei soccorsi fosse a suo carico, rivelandosi carente nella gestione della gravità della situazione e del tutto incapace di coordinare un’azione di soccorso
Il procedimento penale a carico di Ciro Di Lauro per la tentata manomissione del timone, non ha chiarito le motivazioni del gesto
Il comportamento di ENI si è rivelato non chiaro a partire dalla comunicazione sulla provenienza della petroliera. L’Agip Abruzzo proveniva infatti da Genova e non da Sidi El Kedir (Egitto), come dichiarato, di conseguenza anche le dimensioni e la tipologia del carico potevano essere differenti da quanto dichiarato. La cisterna trovata aperta dopo l’incidente poteva quindi ipoteticamente contenere materiale in trasferimento su una bettolina.
Per il rogo del Moby Prince non vi è ancora giustizia.
A cura di Daniele Biacchessi
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