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La Giornata Mondiale Contro l’AIDS | Gli Occhi della Storia

today1 Dicembre 2022 4

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A cura di Francesco Massardo

Il 1 dicembre di ogni anno si ricorda la Giornata Mondiale Contro l’AIDS, un appuntamento fondamentale per la medicina e per l’intera società.

Il motivo è semplice: anche se negli ultimi anni l’attenzione è stata rivolta soprattutto alla pandemia da COVID-19, la diffusione del virus dell’HIV è ancora preoccupante e non deve essere trascurato.

L’obiettivo fondamentale di questa giornata mondiale, istituita per la prima volta nel 1988, è la continua sensibilizzazione nei confronti di un’epidemia che ha raggiunto il proprio picco nel 2004, ma che ancora nel 2019 contava ben 690.000 vittime per malattie opportunistiche legate all’AIDS nel mondo.

Numeri senz’altro in miglioramento, anche questo è un dato, e che lasciano sperare ma che non possono ancora rappresentare la sconfitta definitiva del virus.

Certamente anche l’informazione deve fare la sua parte: ormai assuefatti da mesi di bollettini pandemici, non possiamo dimenticare il triste primato degli 1,1 milioni di decessi registrati nel 2010, l’annus horribilis del virus HIV.

Sebbene la diffusione dei farmaci abbia raggiunto altissimi livelli qualitativi, quasi inimmaginabili solo fino a pochi anni fa – e lo stesso si possa dire per la prevenzione – c’è sempre bisogno di mantenere alto il livello di attenzione.

La Giornata Mondiale contro l’AIDS serve in fondo proprio a questo: mantenere elevata l’attenzione – tra i più giovani ma non solo – e puntare lo sguardo verso i problemi che riguardano la diffusione del virus nei paesi del Terzo Mondo, dove l’accesso alle cure è ancora troppo difficile.

Ma come e quando nasce la Giornata Mondiale Contro l’AIDS?

Questo appuntamento è stato istituito come detto nel 1988 e, come chiarisce il sito ufficiale, è stata la prima giornata mondiale dedicata alla salute ad essere stabilita a livello globale. Il suo scopo è quello di unire le persone e mobilitarle per combattere l’HIV in modi differenti. In che modo?

Condividendo innanzitutto i principi della prevenzione, le storie di persone che oggi convivono con questa condizione, le opere per ricordare coloro che sono morti per malattie correlate.

Il simbolo della Giornata Mondiale Contro l’AIDS è il fiocco rosso incrociato che nasce nel 1991 da un singolo nastro, sinonimo in linea generale della lotta contro l’HIV.

Questa giornata deve ricordare a tutti che questa epidemia, anche se ha rallentato notevolmente la propria diffusione ed è più facile da contenere rispetto al passato, è ancora mortale, o comunque impone numeri difficili da gestire per la sanità mondiale. Ecco qualche esempio:

26 milioni di persone al mondo accedono alla terapia antiretrovirale
Fino al 2019 circa 38 milioni di individui nel mondo convivevano con una diagnosi di positività al virus dell’HIV.
Soltanto nel 2019 sono state diagnosticate 1,7 milioni di nuove infezioni da HIV.
Dall’inizio dell’epidemia al 2019, circa 75,7 milioni hanno contratto l’AIDS.
Infine un ultimo dato, il più difficile da commentare: dal 1981 (anno in cui per la prima volta venne identificata la nuova patologia), 33 milioni di persone sono morte per malattie opportunistiche legate all’AIDS. Anche per questi dati è giusto portare all’attenzione di tutti l’obbligo di seguire le giuste precauzioni.

Altro tema fondamentale è l’importanza di ricordare la presenza quasi endemica del virus nei paesi socio economicamente meno sviluppati. L’Africa è oggi il continente più colpito al mondo da questa epidemia: circa il 60% di tutti i soggetti colpiti dalla malattia vive nel continente a fronte del 12% di popolazione mondiale.

La difficile condizione economica presente in molti Stati, unita alla diffidenza culturale presente in molti villaggi rurali riguardo i metodi di protezione dalla malattia (come l’utilizzo del profilattico), porta ancora oggi moltissime persone ad infettarsi e a trasmettere la malattia ai propri figli al momento del parto.

L’alta circolazione del virus unito alla diffidenza per l’uso del profilattico ed alle scarse risorse economiche della popolazione (che, di fatto, ha difficoltà a potersi permettere le cure antiretrovirali oggi disponibili) rende il tasso di mortalità per AIDS in Africa il più alto del mondo.

La Giornata Mondiale Contro l’AIDS ricorda al pubblico e alle istituzioni che l’HIV non è scomparso. Quindi c’è ancora bisogno di raccogliere fondi, aumentare la consapevolezza e l’attenzione. Non a caso in Italia affrontiamo un problema legato proprio a questo: “Per circa il 35% delle nuove diagnosi di sieropositività all’HIV il successo delle terapie è fortemente compromesso dal ritardo con cui le persone decidono di sottoporsi al test. Sono dati che dimostrano quanto sia ancora impegnativa la battaglia contro il virus dell’HIV, per quanto la ricerca clinica stia andando avanti”.

Senza dimenticare che un altro motivo che porta a considerare importante la Giornata Mondiale Contro l’AIDS è la discriminazione, la lotta a tutte le iniziative che spingono le persone che hanno contratto l’HIV in condizioni di subordinanza sul lavoro, nei luoghi pubblici e nella vita quotidiana.

Ed è bene ricordare che le persone con infezione da HIV hanno il doppio delle probabilità di soffrire di malattie cardiache. L’analisi dei dati rivela che le malattie cardiovascolari associate all’HIV sono più che triplicate negli ultimi 20 anni dato che le persone vivono più a lungo con il virus.

La lotta al virus non è solo una lotta della medicina, con la ricerca di un vaccino funzionante le cui tempistiche sono rese ardue dal continuo mutare del virus stesso, ma anche una battaglia culturale.

Da alcuni anni ormai, sono stati pubblicati studi che collegano l’omofobia e la mancanza di tutele legali nei confronti delle persone LGBT con un più alto rischio di contagio da HIV.

La Yale School of Public Health, ad esempio, utilizzando i dati raccolti tramite un progetto congiunto di atenei, governi, Ong e media online di trentacinque paesi europei, l’European MSM Internet Survey (EMIS), ci dice che gli uomini gay e bisessuali che vivono in contesti ad alto tasso di omofobia e dove non ci sono tutele o vi sono addirittura politiche ostili, tendono ad usare meno i servizi per la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, i test per l’HIV ed evitano di parlare della propria sessualità con gli operatori e le operatrici della sanità. Sappiamo inoltre che alti livelli di omofobia producono un minore accesso alle informazioni sull’HIV, sulla sua prevenzione e inducono ad un minor uso dei preservativi. In tali situazioni si potrebbe quasi dire che il rischio di infezione sia determinato più dalla conseguenza di leggi, politiche e atteggiamenti istituzionali negativi verso l’omosessualità che dai comportamenti delle singole persone.

La lotta contro l’omo-bi-transfobia è quindi un obiettivo prioritario anche nella gestione dell’epidemia da HIV perché se il virus continua a prosperare – specie in alcune realtà – si deve anche e soprattutto al fatto che in molti paesi del mondo le leggi e le pratiche punitive contro le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender continuano a bloccare una risposta efficace all’HIV. Ma la questione appare più generale e coinvolge tutti gli ambiti sociali e scientifici perché, a ben guardare, l’epidemia da HIV è stata raccontata fin da subito come il risultato di uno sguardo omofobico. Nel maggio del 1981, infatti, il bollettino epidemiologico dei Centri per il Controllo delle Malattie (CDC) di Atlanta, descriveva cinque casi di una polmonite atipica verificatisi tutti in giovani maschi di Los Angeles. E a rendere ancor più particolare l’intera vicenda contribuiva il fatto che tutti i giovani maschi riferivano di avere avuto rapporti sessuali con altri maschi. Fu subito istituita una sorveglianza specifica su questo tipo di polmonite e su altre patologie indicative di immunodeficienza così che al 15 settembre dello stesso anno si registrarono in tutti gli Stati Uniti 593 casi di immunodeficienza che, per la maggior parte, riguardava omosessuali maschi e si decise perciò, in quello stesso periodo, di definire questo fenomeno con il nome di Gay-Related Immunodeficiency Disease (GRID), ovvero “malattia da immunodeficienza correlata all’omosessualità”.

La “peste omosessuale”, come fu subito ribattezzata dai media, stimolò nella società la recrudescenza della convinzione collettiva che l’omosessualità fosse un problema medico-sociale: l’associazione tra omosessualità e malattia fu resuscitata in maniera tanto intensa da rimanere, ancora oggi, diffusamente presente.

In Italia questo approccio a-scientifico fu riassunto dall’allora Ministro alla Sanità Donat Cattin nell’espressione. “l’aids se lo prende chi se lo va a cercare”.

Da allora sono passati diversi anni ma quell’approccio omofobico e stigmatizzante è rimasto un segno non ancora del tutto cancellato. Perché l’omo-bi-transfobia non si manifesta in modo eclatante ma spesso è così sottile da non risultare visibile nelle sue caratteristiche ma soltanto nelle sue conseguenze.


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