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L’uomo giusto nel posto sbagliato: Assassinio di JFK | Gli Occhi della Storia

today22 Novembre 2022 20

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Questa è la storia di due storie. Quella di un uomo diventato presidente fin dal giorno in cui era nato e quella dell’attentato progettato da menti tanto vigliacche da nascondersi dietro al caos, senza uscire mai allo scoperto, anche se pur non essendo ufficiale, un’idea di chi ha cospirato se la sono fatta in tanti.
La lista dei presidenti americani assassinati parte da Abraham Lincoln, ucciso il 14 aprile 1865 dall’attore e simpatizzante dei Confederati John Wilkes Booth,
James Garfield, ucciso il 2 luglio 1881 a Washington, a soli 4 mesi dal giuramento.
William McKinley assassinato nel 1901 dall’anarchico Leon Czolgosz.
Altri tempi che in realtà non se ne erano mai andati.
Un popolo abituato alla violenza, alle armi che per i successivi 60 anni sembrava essere andato più lontano dall’epoca del far west, invece sparava ancora, solo che affidava ad altri il compito di uccidere.
Partiamo da una canzone tributo del 1971 dedicata alla figura di JFK, capace di commuovere il fratello Ted, determinato a volerla nella John F Kennedy Library in modo che altri potessero godersi la canzone alla memoria

Il mito di John Fitzgerald Kennedy parte molto presto, grazie all’ambizione di una famiglia da sempre impegnata e protagonista della scena politica.
John nasce a Brooklin, nel Massachusetts, il 29 maggio 1917. Partecipa alla Seconda guerra mondiale come volontario in marina e dopo essere stato ferito alla schiena, torna a Boston per avviarsi alla carriera politica.
Milita nel Partito Democratico come deputato e, in seguito, come senatore. La sua ascesa è già inarrestabile grazie alle scelte giuste che fa anche nella vita privata.
Il 12 settembre 1953 infatti sposa Jacqueline Lee Bouvier, detta Jackie, giornalista del Washington Times-Herald che era stata Incaricata dal suo giornale di realizzare una serie di inchieste fotografiche da realizzare intervistando personaggi famosi, tra questi ovviamente il futuro presidente americano.
Lui ha 34 anni e lei 10 di meno, il matrimonio è da sogno e lo resterà, al netto delle voci di tradimento di John sussurrate nei corridoi e rilanciate su tutti i magazine.
Tornando alla politica il 2 gennaio 1960, annuncia la sua decisione di concorrere alle elezioni presidenziali, scegliendo come suo vicepresidente Lindon Johnson e nel discorso di accettazione della candidatura enuncia la dottrina della “Nuova Frontiera”.

C’è tanto idealismo nella Nuova Frontiera, la quale identifica una visione che intende migliorare il sistema educativo e quello sanitario, tutelare gli anziani e i più deboli.
Il ruolo del fratello Bob è determinante. È lui che ispira la sua dottrina, è lui che lavora ai suoi discorsi, è lui che determina la linea di condotta da tenere nella corsa alla presidenza.
Così come è lui a concordare con John la politica estera, indicando l’intervento economico in favore dei Paesi sottosviluppati.
Il suo messaggio ha una forza implicita come descrive Furio Colombo, storico inviato Rai.

Kennedy per poter coronare il progetto presidenziale doveva confrontarsi con il candidato repubblicano Richard Nixon. I due danno vita al primo dibattito presidenziale mai trasmesso alla televisione. La vicenda mostra da una parte l’incredibile potenziale comunicativo di John e una certa inadeguatezza di Nixon. Il primo è preciso e risoluto, il secondo a disagio e addirittura disordinato.
La telegenia di Kennedy, unita alla dimensione del sogno e dell’inclusione, la visione di un mondo diverso, specie a soli 15 anni dalla Seconda guerra mondiale, con disuguaglianze ed ingiustizie, come quelle che i bianchi perpetravano disinvoltamente verso i neri, rendeva in quel momento storico la figura del giovane John come irresistibile.
L’uomo giusto al posto giusto.
Come da pronostico infatti a novembre vince le elezioni, si insedia e annuncia la decisione di stabilire una “Alleanza per il progresso” con i Paesi latino-americani.
Alla fine di maggio parte per un viaggio in Europa che diventa un ulteriore manifesto della sua capacità seduttiva. Incontra De Gaulle a Parigi, Krusciov a Vienna e Mac Millan a Londra.
Il fascino che esercita negli Stati Uniti riesce a dirigerlo anche in Europa ed è qui che nel 1963 pronuncerà una frase rimasta nel tempo e riutilizzata modificandola ancora oggi a seconda del contesto.

In questo periodo storico l’opinione pubblica internazionale guarda con apprensione agli equilibri precari tra le due superpotenze Stati Uniti e Russia.
Kennedy vorrebbe mantenere un’intesa mondiale basata sulla supremazia delle due nazioni più potenti, le quali si fronteggiano anche nel predominio dello spazio, al punto da dare il via a missioni estremamente pericolose per conquistare la luna, già dal 1959.
Nel 1962, in questo clima di tensione, due aerei U-2 americani, sorvolano Cuba scattando foto che mostrano quattro piattaforme per alcune basi missilistiche a media gittata, modelli di missili da un megaton, che possiedono una potenza distruttiva cinquanta volte superiore a quella della bomba su Hiroshima.
La scoperta è sconvolgente. Una volta installati, questi missili possono raggiungere quasi ogni zona degli Stati Uniti
Inizia la crisi di Cuba, si va ad un passo dalla guerra totale. Per evitare incidenti nucleari, viene istallato una via diretta tra il Cremlino e la Casa Bianca, una “linea calda”, da utilizzare in caso di tensione internazionale. L’anno che segue è un incubo. Il braccio di ferro dura tredici giorni, il mondo assiste con paura alla possibile apocalisse e grazie ai nervi saldi di John e Bob Kennedy si conclude nel migliore dei modi il 28 ottobre.
Storia raccontata magnificamente anche dal film di Roger Donaldson: Thirteen days, con Kevin Costner, particolarmente presente nei film sui Kennedy.
L’ America più equa e senza diseguaglianze, che aveva fatto sognare milioni di americani non arriva però in un anno. Non può bastare la volontà di un uomo, per quanto il più potente della nazione, a cambiare culturalmente un Paese in un periodo tanto ristretto.
Ci vuole tempo e quel tempo non gli viene concesso da nessuno. Gli episodi di razzismo si moltiplicano, per mano di una parte del Paese convinto stolidamente dalle precedenti amministrazioni e la sua stessa controversa storia, di avere una supremazia verso la comunità afroamericana.
È così questi si ribellano e danno vita a grandi manifestazioni, guidati da Martin Luther King.
Siamo nel luglio del 1963 e oltre alla politica interna, il progetto resta quello di essere il Paese di riferimento nel mondo, in quest’ottica il presidente americano fa un breve soggiorno in Italia, salutato dalla folla curiosa ed entusiasta e dal presidente della Repubblica Mario Segni che lo omaggia con queste parole:

Ad agosto viene organizzata una marcia di duecentocinquantamila persone, organizzati in un’imponente corteo, marciano su Washington per rivendicare i propri diritti e appoggiare le decisioni di Kennedy.
La situazione si risolve per il meglio e per questo il presidente decide di partire per un viaggio a Dallas che inquieta lui e la moglie:
Kennedy stesso si rendeva conto di quanto fosse pericolosa quella trasferta;
Quella stessa mattina JFK disse, indicando il podio dal quale avrebbe tenuto un breve discorso: «Guardate il podio, con tutti quei palazzi intorno i servizi segreti non sarebbero mai in grado di fermare chi volesse colpirmi.
Al suo arrivo viene accolto con applausi e grida di incitamento, si leva soltanto qualche fischio.
È una giornata di sole e non sembra esserci nulla di strano, nulla di anomalo.
Sono le 12-29 e mentre il presidente saluta la folla dalla sua auto scoperta con il governatore John Connally e la moglie di quest’ultimo Nellie a bordo della limousine presidenziale l’attentato sta per andare in scena

È una scena incredibilmente violenta. Il corpo, la testa del presidente straziata da colpi di arma da fuoco e Jacqueline, la moglie che improvvisamente si alza e cerca di salire sul cofano posteriore dell’auto.
Il presidente è morto ed è il panico in America e in tutto il mondo.
La Polizia di Dallas alle 13:50, solo un’ora e venti dopo l’attentato arresta in un cinema poco distante Lee Harvey Oswald, accusato di aver ucciso un poliziotto di Dallas e solo più tardi di aver assassinato il presidente.
Come e più della trama di un film Oswald venne a sua volta ucciso due giorni dopo, il 24 novembre, prima di venire portato in tribunale all’interno del seminterrato della stazione di polizia di Dallas da Jack Ruby, il proprietario di un night club di Dallas noto alle autorità per i suoi legami con la mafia.
Anche in questo caso il fatto avviene davanti alle telecamere, anche in questo caso vi riproponiamo il momento dello strano omicidio.

Il fatto più inquietante è che alla mezzanotte del 22 novembre, poche ore dopo l’assassinio Oswald era stato portato davanti alla stampa, esibito e pronto a rispondere alle domande
In mezzo a loro c’era proprio Jack Ruby, del quale si dirà in seguito che nel giorno dell’omicidio passava lì per caso e aveva una pistola.
Lyndon B. Johnson da vice diventa presidente e crea la commissione Warren, le cui indagini danno più la sensazione che vogliano coprire i mandanti di quanto non sembrino indagare seriamente. Basti sapere che arriva alla conclusione che i colpi sparati siano tre e dalla stessa posizione, mentre risulteranno il doppio come ampiamente mostrato dagli audio e le riprese. Il procuratore Garrison (poi interpretato da Kevin Costner nel film fi Oliver Stone JFK) contesta la commissione per l’opacità delle sue intenzioni e le anomalie dell’inchiesta che sembrava più voler insabbiare che trovare risposte.
Tra le tante cose che non tornano non viene spiegato perché il corpo del presidente era stato spostato e perchè l’autopsia, eseguita da un patologo della marina, si limiti a confermare due colpi da dietro, uno al collo e l’altro alla testa in entrata, quando i fatti suggeriscono qualcosa di diverso
Il ricercatore Chris Plumney, che ha dedicato sei anni all’indagine sull’omicidio smentisce le tesi ufficiali

Prima di morire quattro anni dopo, Jack Ruby dichiara che nessuno saprà mai chi sia stato ad orchestrare l’omicidio ma che se il vicepresidente non fosse stato Lindon Johnson, John Kennedy non sarebbe mai morto
In seguito tra stampa, investigatori improvvisati ed altri più accreditati, commissioni e politici sarebbero stati messi in gioco tutti i possibili mandanti del delitto.
Dalla criminalità organizzata ai russi, da Cuba a un fantomatico gruppo rivoluzionario armato, da un unico assasino, Lee Harvey Oswald, capace di sparare da più punti contemporaneamente ai nemici interni, intesi come gli oppositori politici del presidente negli Stati Uniti (ovvero la tesi più credibile). Tanto più che tra questi c’erano anche i generali, gli industriali e i senatori coinvolti nel complesso militare-industriale e politico della macchina bellica che per interesse si opponevano ai ritiro dal Vietnam come voleva Kennedy.
A quasi 60 anni dall’omicidio la figura del presidente americano è ricordata tanto quanto il suo omicidio realizzato da più sicari in più punti. La cultura pop ha preso parte e posizione sulla vicenda, ispirandosi come il gruppo rock dei Saxon alla mezz’ora che era seguita dall’assassinio mischiandola ai ricordi di chi aveva seguito la notizia dall’Inghilterra.

Le tesi complottiste negli anni si moltiplicheranno, la superficialità delle indagini, i misteri su persone, date, spostamenti, morti seguite all’attentato, mezze frasi, testimonianze contraddittorie e molti altri fatti aumenteranno il volume dei sospetti divenuti tanto radicati da creare una coscienza collettiva verso una figura rimasta indelebile e uccisa da più mani di persone che quel giorno non erano nemmeno presenti a Dallas, rendendo Kennedy un mito, ancora più di quanto già non fosse.


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