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A cura di Francesco Massardo
Ci sono momenti in cui il silenzio è una necessità più che un dovere. Momenti in cui non si può chiudere il mondo dietro la porta di casa, lui là fuori, noi qui dentro a festeggiare. Quello del 2005 non fu un Capodanno come gli altri. Il mondo, fuori, ci era entrato in casa senza bussare: qualche giorno prima, il 26 dicembre del 2004, nella giornata di Santo Stefano, la terra intera aveva assistito sgomenta a uno dei più devastanti eventi catastrofici della storia, almeno per quanto riguarda l’umanità.
E così, mentre in rigoroso ciclo da Sidney a Los Angeles, il pianeta si apprestava a entrare nel 2005, lo sgomento e le immagini di morte e devastazione erano ancora troppo vivide per lasciare spazio ai festeggiamenti.
Il maremoto dell’Oceano Indiano e della placca indo-asiatica del 26 dicembre 2004 è stato uno dei più catastrofici disastri naturali dell’epoca moderna e ha causato centinaia di migliaia di morti.
A stupire in modo ancora oggi indelebile fu la rapidità con la quale un’area immensa del nostro pianeta venne messa in ginocchio. L’evento ha riguardato l’intero sud-est dell’Asia, giungendo a lambire addirittura le coste dell’Africa orientale.
Nello specifico, i maremoti hanno colpito e devastato parti delle regioni costiere dell’Indonesia, dello Sri Lanka, dell’India, della Thailandia, della Birmania, del Bangladesh e delle Maldive, giungendo a colpire le coste della Somalia e del Kenya (ad oltre 4.500 km dall’epicentro del sisma). L’evento ha avuto inizio alle ore 07:58:53 locali, quai le due di notte in Italia del giorno di Santo Stefano quando un violentissimo terremoto, con una magnitudo di 9,1, ha colpito l’Oceano Indiano al largo della costa nord-occidentale di Sumatra in Indonesia. Il sisma è durato 8 minuti. Tale terremoto è risultato in effetti il terzo più violento degli ultimi sessant’anni, dopo il sisma che colpì Valdivia, in Cile, il 22 maggio 1960 e quello dell’Alaska del 1964, rispettivamente con magnitudo 9,5 e 9,2, ma che per la scarsa densità abitativa di entrambi i luoghi, hanno totalizzato assieme poco più di tremila vittime, un numero alto, ma imparagonabilmente minore rispetto al dramma asiatico.
Il terremoto ha scatenato nel 2004 delle grandi onde anomale che hanno colpito sotto forma di immensi maremoti (con un impressionante picco massimo di 51 metri, registrato a Lhoknga, in Indonesia) le coste dell’oceano Indiano, ma sono anche state registrate lievi fluttuazioni di livello nell’oceano Pacifico. Il numero totale di vittime accertate causate da questa serie di cataclismi è di circa 226.000 esseri umani, ma decine di migliaia di persone sono state date per disperse, mentre fra i tre ed i cinque milioni furono gli sfollati.
A fronte di stime iniziali molto più conservative, il responsabile delle operazioni di soccorso dell’Unione europea, Guido Bertolaso, aveva fin dalle prime ore affermato che i morti avrebbero potuto essere alla fine ben più di 100.000, mentre in seguito sono circolate stime che pongono tra i 150.000 ed i 400.000 il numero dei morti per conseguenza diretta del terremoto e del conseguente maremoto soltanto in Indonesia.
Dato ancor più devastante, secondo le organizzazioni umanitarie, circa un terzo delle vittime potrebbe essere costituito da bambini, specie in considerazione del fatto che fra le popolazioni delle regioni interessate dalla sciagura vi è un’alta proporzione di minori che hanno potuto opporre una minore resistenza alla forza straripante delle acque.
Oltre alle popolazioni residenti, vi sono state tra le vittime molti turisti stranieri che si trovavano in quelle zone nel pieno delle vacanze di Natale, che nell’emisfero australe è periodo di alta stagione. Ad esempio, è notevole il fatto che questo singolo evento abbia causato quasi lo stesso numero di vittime di nazionalità svedese (543, delle quali 542 nella sola località thailandese di Khao Lak) di quante non ne avesse causate l’intera Seconda guerra mondiale (circa 600); la causa è da ricercare ovviamente nel fatto che la Thailandia è ormai la meta tradizionale del turismo invernale svedese soprattutto della terza età.
Nel 2004 strumenti che oggi diamo per sContati come app di messaggistica online e social media erano ancora avveniristici: il mancato avvertimento dell’imminente arrivo dell’onda mortale, soprattutto in India e Sri Lanka, ha provocato in queste regioni 55.000 morti. alcuni storici hanno ipotizzato che questo potrebbe essere il più costoso maremoto in termini di vite umane a memoria d’uomo.
La storia non si fa col senno di poi, ma se le popolazioni costiere fossero state avvertite da messaggi televisivi, o tramite i cellulari, o da veicoli muniti di altoparlanti, sarebbe bastato uno spostamento di cinquecento metri verso l’interno, o su alture vicine, per non cadere vittime del maremoto, una distanza ridicola se pensiamo che avrebbe tracciato il confine tra la vita e la morte.
Il fattore del tempo è quello che ancora oggi grida più vendetta, se consideriamo che l’onda ha impiegato circa tre ore ad attraversare il Golfo del Bengala prima di infrangersi violentemente contro le coste indiane e singalesi.
Casualità incontrovertibile o dramma annunciato? I maremoti sono piuttosto frequenti nell’oceano Pacifico, dove le popolazioni ed i governi sono più preparati a questo fenomeno e dove sono in funzione degli evoluti sistemi di allerta. Nell’oceano Indiano l’ultimo maremoto paragonabile a questo avvenne nel 1883, a seguito dell’eruzione e della conseguente esplosione del Krakatoa. Il numero elevato di vittime di questo maremoto potrebbe essere anche dovuto al fatto che i paesi colpiti erano anche in quel caso del tutto impreparati all’evento e che le popolazioni stesse non si sono rese conto e non hanno compreso i segnali che avrebbero potuto far riconoscere loro l’arrivo di un maremoto.
Lo stato di emergenza venne dichiarato nello Sri Lanka, in Indonesia e nelle Maldive, mentre le Nazioni Unite hanno dichiarato che le operazioni umanitarie effettuate a seguito del cataclisma sono state le più costose della storia. I governi e le ONG nel frattempo avevano lanciato l’allarme sul fatto che il numero di vittime finale sarebbe potuto aumentare a causa di eventuali epidemie.
La Provincia indonesiana è stata la più colpita dallo tsunami, con oltre 166 mila morti e dispersi e più di mezzo milione di persone rimaste senza casa. La scuola di Ibu, che a 10 anni dal maremoto affidò alle pagine del messaggero i suoi ricordi, è una di quelle ricostruite da Save the Children nell’ambito dei programmi di Educazione. «Abbiamo sentito il terremoto e poi un’esplosione. I bambini sono fuggiti all’esterno, urlando e chiedendo aiuto. Il mare si alzava verso la terra – racconta Ibu – Siamo tornati dopo due giorni per capire cosa fosse rimasto della scuola e intorno a noi c’erano solo cadaveri. Erano bambini che abitavano nei dintorni e abbiamo cercato nei loro zainetti per cercare di capire chi fossero e riconsegnare i corpi alle loro famiglie Mio figlio era con me e ancora oggi non riesco a immaginare come possa essersi sentito a vedere lì i corpi dei suoi amici».
«Prima dello tsunami, gli studenti della nostra scuola erano 125, dopo ne sono rimasti 75 – racconta ancora Ibu – La comunità si è ridistribuita diversamente sul territorio, la maggior parte delle persone non aveva un posto dove vivere. Oggi abbiamo una scuola migliore e i bambini sono felici perché hanno una scuola più bella di quella di prima. Questa scuola, con la benedizione di Dio, può resistere al terremoto Ora siamo più sereni», conclude Ibu.
C’è un dato, uno solo a dire il vero, che restituisce in parte speranza a queste pagine scure della storia umana. Gli eventi del 26 dicembre 2004, uniti certamente alle immagini impressionanti della potenza dello tsunami, hanno generato una corsa agli aiuti umanitari senza precedenti. Secondo l’UNICEF sono 230.000 le persone, in maggioranza donne e bambini, che persero la vita nella tragedia. Intere comunità sono state distrutte, case, scuole e centri sanitari sono stati spazzati via.
Tuttavia, gli aiuti internazionali forniti alle popolazioni per la ricostruzione hanno permesso di ripristinare i servizi di base e di ricostruire “meglio di prima”.
Nel suo complesso, la comunità internazionale (governi, agenzie ONU, ONG) ha donato per l’emergenza più di 14 miliardi di dollari. L’UNICEF ha contribuito con circa 694,7 milioni di dollari, tre quarti dei quali derivanti esclusivamente dall’attività di raccolta fondi presso il settore privato da parte dei Comitati Nazionali.
Come detto non soltanto è stato possibile ricostruire nuovamente e meglio alcuni servizi di base, come centri sanitari, scuole e infrastrutture idriche, ma si è anche potuta aumentare la sicurezza nelle comunità più colpite dal disastro, soprattutto per proteggere i bambini e le bambine. In Indonesia, per esempio, “la risposta internazionale a questa emergenza ha creato un’occasione senza precedenti per accelerare il processo di pace tra il governo Indonesiano e gli indipendentisti armati del Free Aceh Movement fino all’accordo di pace firmato da entrambi le parti nell’agosto del 2005.
Oltre a soddisfare le necessità immediate dovute all’emergenza dello tsunami, le attività di ricostruzione portate avanti dall’UNICEF si sono concentrate sia nelle zone danneggiate dal maremoto sia nelle aree di conflitto, una scelta strategica orientata a consolidare la pace conquistata in seguito al disastro naturale.
In Thailandia la ricostruzione è servita anche per favorire la nascita di sistemi nazionali a tutela dell’infanzia. Nel 2007 è stato creato un Sistema di vigilanza per la protezione dell’infanzia con lo scopo di identificare e monitorare i bambini orfani a causa del disastro e quelli a rischio. Il programma, che nel 2007 è stato applicato in 27 sotto distretti e in 36 nel 2008 e poi esteso su scala nazionale. Ovviamente non mancarono gli eventi il cui ricavato venne devoluto in aiuto dei paesi colpiti. Su tutti spicca l’IRB Rugby Aid Match, incontro di rugby a 15 che si tenne allo stadio di Twickenham di Londra il 5 marzo 2005.
Il match si tenne tra due selezioni di giocatori, una per ciascun emisfero; selezionatore dell’Emisfero Nord fu l’inglese Sir Clive Woodward, mentre per l’Emisfero Sud fu l’australiano Rod McQueen.
L’incontro terminò con la vittoria dell’Emisfero Sud per 54 a 19, ma ovviamente l’obiettivo era quello di raggiungere, tra gli incassi ed eventuali donazioni, la cifra di 3 milioni di sterline. L’evento fu seguito allo stadio da più di 40.000 spettatori paganti. E rimanendo nella beneficenza sportiva, il World Cricket Tsunami Appeal è stato uno sforzo dell’International Cricket Council per raccogliere fondi per gli sfollati e per la ricostruzione. La partita è stata giocata al Melbourne Cricket Ground il 10 gennaio 2005. Lo tsunami ha infatti colpito diverse nazioni dove il cricket è sport nazionale.
Il maremoto del 2004 ha segnato, restando in un gioco di parole inquietante, uno spartiacque nella storia degli aiuti umanitari. Oggi nelle coste colpite, le uniche tracce del passaggio delle onde sono quelle volutamente lasciate in ricordo perenne, ma quella forza distruttrice lasciò strascichi in tutto il mondo. A Londra, a due passi dal museo di storia naturale troverete un blocco di granito da 120 tonnellate, un cubo di 4,1 metri con un angolo rimosso. Secondo Handy Shipping Guide l’installazione è stata il “più grande trasporto di un singolo pezzo di pietra nel Regno Unito dalla costruzione di Stonehenge”.
Il principale organizzatore di questo memoriale, Michael Holland, ha perso sua madre, sua moglie e sua figlia nel disastro.
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