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today14 Luglio 2025
Dazi americani al 30% di Trump: l’Italia vedrebbe evaporare 10–35 miliardi di Pil e export, con fino a 178.000 posti di lavoro a rischio, spingendo il Sud verso una nuova crisi industriale.
Quanto vale per l’Italia un dazio al 30%, come quello annunciato da Donald Trump contro l’Unione europea? La calcolatrice elabora numeri che non hanno un’anima, ma parlano, e raccontano di un impatto disastroso per la nostra economia. Secondo i calcoli effettuati da Svimez, il provvedimento di Trump in vigore dal 1 agosto annullerebbe mezzo punto del nostro Pil, 9 miliardi, farebbe crollare del 20% le esportazioni italiane, 12,5 miliardi.
Sul piano del mercato del lavoro sarebbero a rischio oltre 150 mila posti, di cui 13 mila al Sud. Ciò avverrebbe nello scenario di tariffe al 30% con deroghe: auto al 25%, acciaio e alluminio al 50%, esenzione totale per farmaceutica, semiconduttori e prodotti energetici. Lo scenario sarebbe ancora più drammatico con un dazio del 30% contro ogni comparto, il conto per l’Italia salirebbe a 10,8 miliardi persi di Pil, 15 miliardi svaniti di export, 178 mila posti cancellati, di cui 16 mila al Sud. Secondo la Cgia i danni raggiungerebbero quota 35 miliardi.
Si salverebbero ben pochi comparti. I settori più colpiti resterebbero la meccanica a Nord, l’agroalimentare a sud. Un dazio così alto cancellerebbe la leggera ripresa del tessuto industriale meridionale registrata in questi anni. Andrebbero in crisi le eccellenze alimentari: dal pecorino romano alla mozzarella di bufala, dall’olio al vino. Ci sarebbero forti ripercussioni sull’89% delle auto italiane prodotte proprio al Sud, sulle apparecchiature elettroniche realizzate in Sicilia, sulla meccanica dell’Abruzzo (140 milioni esportati), e quella della Puglia (350 milioni).
Resta corta la coperta dei conti pubblici e dei fondi europei. Il Governo dovrà trovare risorse per il fondo per la ricostruzione dell’Ucraina e il piano di riarmo europeo e della Nato, inserendo ogni capitolo di spesa nel nuovo Patto di stabilità con un tetto alla spesa pubblica. I super dazi di Trump farebbero saltare gran parte delle priorità dell’esecutivo.
Le previsioni del Pil per quest’anno – già dimezzate dal governo allo 0,6% e garantite ormai dal solo Pnrr – andrebbero riscritte. Mentre molte imprese, le meno attrezzate, potrebbero scomparire in pochi anni. Anche le compensazioni pensate dal Governo per arginare i dazi, ottenute dirottando ad esempio fondi di coesione o del Pnrr verso le imprese esportatrici danneggiate, resterebbero scritte nel libro dei sogni e delle narrazioni.
A partire dalla sua seconda inaugurazione nel gennaio 2025, Donald Trump ha rilanciato una politica commerciale aggressiva, ricorrendo ai dazi come leva principale. Il 1° febbraio ha varato tariffe del 25 % su quasi tutte le importazioni da Canada e Messico, e del 10 % su quelle dalla Cina, giustificando tali misure come risposta all’emergenza fentanyl e all’immigrazione illegale. Dopo un primo rinvio deciso il 3 febbraio in cambio di concessioni su controllo dei confini e droga, tali dazi sono entrati in vigore il 4 marzo, con contestuali esenzioni sala USMCA.
Pochi giorni dopo, il 10 marzo, sono stati estesi al 20 % sulla Cina, e il 27 marzo ha imposto un 25 % su auto straniere, ampliando ulteriormente il raggio d’azione . All’inizio di aprile, Trump ha annunciato un dazio “reciproco” di 10 % su tutte le importazioni non statunitensi, con aliquote maggiori per Paesi con elevati surplus, sospendendo però temporaneamente applicazione paese per paese fino al 9 luglio. Il 4 giugno ha raddoppiato i dazi su acciaio e alluminio, portandoli al 50 % per la maggior parte dei Paesi, fatta eccezione per il Regno Unito.
Il 23 maggio Trump ha minacciato un 50 % sull’UE, successivamente posticipato prima al 9 luglio, poi esteso al 1° agosto, quando ha ufficializzato un dazio del 30 % su UE e Messico. Contestualmente, ha annunciato tariffe tra 20 % e 50 % su una lista di 23 Paesi (Canada, Giappone, Brasile, ecc.) e un dazio del 35 % sul Canada a partire dallo stesso 1° agosto. In parallelo, la corte statunitense ha sospeso a fine maggio le tariffe ad ampio raggio (i cosiddetti “Liberation Day Tariffs”), ritenendo che superassero l’autorità presidenziale. Nonostante questo, l’amministrazione ha continuato ad applicare o a usare altri elementi della strategia tariffaria, utilizzando le lettere minacciose come strumento negoziale — un approccio definito “escalate to de‑escalate” dagli analisti.
Scritto da: DANIELE BIACCHESSI
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