Il Corsivo

Putin tratta sul piano di Trump, ma chiede agli ucraini di ritirarsi dal Donbass

today28 Novembre 2025

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Scritto da Daniele Biacchessi

Putin apre al dialogo sul piano americano, ma impone condizioni irrealizzabili: ritiro ucraino da Donbass e Crimea, nuove elezioni a Kiev e l’uscita di scena di Zelensky.

Per la prima volta dall’inizio del conflitto, il leader russo Putin si dice disponibile a trattare su un piano di pace americano. In passato ci aveva provato Erdogan con i falliti negoziati iniziali in Turchia, poi quelli successivi all’incontro tra Trump e Putin a Anchorage, i cui esiti sono stati disastrosi. Putin utilizza come sempre la politica dei due forni: da una parte negozia, dall’altra bombarda.

E i problemi rimangono inevasi, tanto che la Russia inserisce tra le condizioni per aprire un tavolo con gli americani il ritiro dell’Ucraina da Crimea e Donbass, e il cambio di guida di Kiev con elezioni e allontanamento di Zelensky. Tutti punti giudicati inaccettabili da Kiev e da Bruxelles.

L’affare Witkoff

Il piano di pace americano per l’Ucraina sarebbe nato da contatti riservati tra Steve Witkoff, inviato speciale di Donald Trump, e Jurij Ushakov, consigliere di Vladimir Putin, basati in gran parte su un testo russo. Il 14 ottobre scorso, una breve telefonata avvia il processo, con la proposta di presentare a Trump un’iniziativa simile all’accordo di Gaza.

Mosca invia poi un documento non ufficiale tramite Kirill Dmitriev, che diventa la base del piano successivamente modificato da Washington. La fuga di notizie sulle intercettazioni mette in difficoltà Witkoff, criticato da diversi repubblicani e accusato di eccessiva vicinanza alla Russia. Il Cremlino lo difende, sostenendo che le polemiche mirano a sabotare gli sforzi di pace, e che comunque festa un piano americano, non russo.

Occupazione del Donbass e della Crimea

Il conflitto ha origini risalenti al 2014, quando, alla scia della rivoluzione ucraina e della caduta del governo filo-russo, la Russia intervenne militarmente nella penisola di Crimea: truppe senza insegne occuparono la Crimea a partire dal 27 febbraio 2014, nel giro di pochi giorni presero il controllo delle istituzioni e, dopo un referendum ritenuto illegittimo dalla comunità internazionale, la annetterono formalmente il 18 marzo 2014.

Parallelamente, in Ucraina orientale, a Donetsk e Luhansk, regioni russofone e con significativi legami storici e culturali con Mosca, esplose un’insurrezione filo-russa: movimenti separatisti, sostenuti logisticamente e militarmente dalla Russia, proclamarono le repubbliche indipendenti (Donetsk People’s Republic e Luhansk People’s Republic). Questo diede inizio a ciò che sarebbe diventato il conflitto nel Donbass.

Negli anni seguenti l’Ucraina tentò di ristabilire il controllo attraverso operazioni militari e tentativi di accordi, come gli accordi di Minsk (2014 e 2015), che prevedevano la reintegrazione delle repubbliche separatiste in cambio di una loro certa autonomia. Ma tali accordi non fermarono la violenza, il Donbass rimase una zona di guerra latente, con convivenza fragile tra offensive, tregue, insediamenti separatiste e ingerenze esterne. La situazione si radicalizzò di nuovo nel 2022 con l’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia.

Questo retaggio storico spiega perché le richieste attuali di Mosca, il ritiro totale delle forze ucraine da Donetsk e Luhansk, il riconoscimento della Crimea come “russa”, e la rinuncia da parte dell’Ucraina a qualsiasi progetto di adesione alla NATO o all’Occidente, rappresentino un vero spartiacque: accettarle significherebbe sancire come definitivo un cambio di confini avvenuto con la forza, legittimando di fatto anni di occupazione e annessione.

Dal punto di vista di Kiev e della comunità internazionale, ciò equivarrebbe a una resa della sovranità e della integrità territoriale ucraina, una prospettiva che evidentemente urta con principi fondamentali del diritto internazionale. Inoltre, il tessuto sociale, demografico e identitario delle regioni in questione è molto complesso: le differenze linguistiche, le divisioni interne, e la presenza di minoranze russe sono da tempo sfruttate da Mosca come argomenti di “protezione dei diritti dei russofoni” per giustificare interventi, uno strumento ricorrente di ingerenza geopolitica e narrativa ideologica.

Scritto da: Daniele Biacchessi


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