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Europa: troppe velleità sulla transizione energetica

today17 Febbraio 2024 689

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A cura di Ferruccio Bovio

Autorevoli studi condotti a livello di Parlamento europeo, hanno quantificato i costi della transizione energetica nella stratosferica cifra di quarantamila miliardi di euro da spendersi entro il 2050. E’ chiaro che si sta parlando di impegni finanziari neanche lontanamente sostenibili senza un coinvolgimento decisivo da parte della mano pubblica, ma è altrettanto chiaro che si sta purtroppo anche parlando di una prospettiva praticamente irrealizzabile se posta alla luce delle regole fiscali  previste dal nuovo patto di stabilità comunitario. Regole che non consentono, infatti, di escludere, dal conteggio dei deficit statali, gli investimenti effettuati  proprio al fine di accelerare la transizione energetica. In altre parole, la politica green che ha ispirato l’azione della Commissione UE negli ultimi anni, cade in aperta contraddizione con se stessa nel momento in cui, non deflettendo dal suo tradizionale rigore, rischia di mandare in fumo tutto quel bel libro dei sogni di gloria europea che risponde al nome di Green Deal. Gran parte degli investimenti necessari per realizzare puntualmente tutti i traguardi che Bruxelles ha fissato per la metà del secolo, richiederebbero, infatti, concretamente l’intervento dello Stato, visto che, tra l’altro, molti di essi sono scarsamente (o per nulla) remunerativi e, quindi, ben difficilmente appetibili per i privati.

Del resto, anche le proteste degli agricoltori cui assistiamo in questi giorni, altro  non fanno che riflettere una diffusa insoddisfazione per l’incapacità, dimostrata dall’Unione europea, nel prevedere i deludenti risultati di tante norme emanate più sugli svolazzi di una fantasia ambientalista, che sulla base di riflessioni ispirate da pragmatismo e da chiarezza di obbiettivi.

Per troppo tempo, spinti dall’ambizione di dover essere, per forza, i primi della classe, gli Europei (o meglio chi li ha governati) hanno alzato sempre più in alto l’asticella delle loro politiche ambientali, dimenticandosi quasi completamente del fatto che, prima o poi, sarebbe pure venuto il momento di fare i conti con la concorrenza di Paesi che producono infischiandosene della decarbonizzazione e magari anche dei diritti più elementari dei loro lavoratori. Pertanto, il dubbio che ci viene spontaneo è quello che si riferisce alla effettiva competitività di un Continente che, mentre da un lato pretende di essere assolutamente aperto al commercio internazionale, dall’altro si auto impone vincoli interni che lo penalizzano pesantemente proprio sul terreno della concorrenzialità.

Per fortuna (sebbene in serio ritardo) una certa consapevolezza del tempo e del terreno perduti dall’economia europea comincia ad affiorare anche a livello di istituzioni comunitarie: e noi speriamo che anche l’Italia, con la sua industria manifatturiera che è seconda soltanto a quella tedesca, sappia farsi portavoce autorevole delle esigenze di chi ancora vuole lavorare e produrre in Europa.

17 Febbraio 2024

Scritto da: Giornale Radio

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