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Il piano di Trump, la firma di Israele, i dubbi di Hamas, la fine della guerra

today1 Ottobre 2025

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Scritto da Daniele Biacchessi

L’accordo di Trump su Gaza divide Israele, inquieta Hamas e mette alla prova la credibilità dell’Onu.

Al momento è difficile dire se il piano di Trump su Gaza, firmato da Netanyahu, con i mille dubbi di Hamas e dei paesi arabi, potrà divenire nel tempo un cessate il fuoco permanente, con la fine del genocidio della popolazione palestinese. Troppe volte Trump ha annunciato di aver risolto il conflitto, e puntualmente la guerra si è allargata fino al Libano contro gli Hezbollah, allo Yemen contro gli Houthi, contro l’Iran con l’attacco diretto degli Stati Uniti, perfino con le bombe lanciate contro Doha nel Qatar, per mesi sede dei negoziati. Donald Trump ha minacciato Hamas che a suo avviso espierà all’inferno se respinge il suo piano per Gaza.

E Hamas e altre fazioni armate di Gaza sarebbero propense ad accettare il piano del presidente degli Stati Uniti, ma hanno richiesto chiarimenti al mediatore del Qatar sulle garanzie che la guerra non riprenderà dopo che Netanyahu avrà ricevuto gli ostaggi israeliani, sul calendario del ritiro dell’Idf, sulla portata del ritiro e sulle garanzie contro futuri attacchi ai leader del movimento all’estero. Forti critiche contro Netanyahu per aver firmato il documento vengono dal ministro delle Finanze israeliano di estrema destra Bezalel Smotrich.

L’appello dell’Onu a Israele e Hamas

Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha invitato tutte le parti ad accettare, soprattutto attuare il piano per Gaza presentato dal presidente degli Stati Uniti. “È ora fondamentale che tutte le parti si impegnino a rispettare questo accordo e a rispettarlo”, ha affermato Guterres che accoglie con favore la mossa di Trump del tycoon e l’importante ruolo dei paesi arabi e musulmani sul piano diplomatico.

Ma se nelle trattative sulla fine della guerra qualcosa è andato storto è proprio la diplomazia dell’Onu che, al di là di rapporti e denunce sulle condizioni della popolazione palestinese, non è riuscita ad andare, lasciando il dubbio che le Nazioni Unite siano più una tigre di carta che una istituzione in grado di fermare i tanti conflitti mondiali.

La distruzione dell’eredità culturale e il dolore delle cose perdute

Quando si parla di guerra, spesso l’attenzione va a cifre come vittime, rifugiati, armi, fronti di combattimento. Ma c’è un altro danno, silenzioso ma altrettanto irreversibile: la perdita di ciò che ci connette al passato — i monumenti, gli edifici storici, le biblioteche, le moschee, i documenti, le opere d’arte — tutte cose che costituiscono la memoria di un popolo. A Gaza, questa memoria è sotto attacco.

Cosa è stato distrutto

  • Secondo varie analisi, oltre 110 siti culturali in Gaza sono stati danneggiati o distrutti fin dall’inizio del conflitto. Questi includono monumenti religiosi, edifici storici, musei, centri culturali.

  • Biblioteche e archivi hanno subito perdite dolorose: la Gaza City Central Archives, con centinaia di migliaia di documenti storici, foto, mappe che tracciano la vita del territorio nel secolo scorso, è stata completamente distrutta.

  • Anche istituzioni culturali recenti, come il Rashad al-Shawwa Cultural Center, che ospitava eventi, libri, conferenze per la comunità, sono state devastate.

Impatti concreti sulla società

  • Perdita identitaria: quando un monumento antico viene distrutto, non è solo pietra che cade, ma un pezzo della storia che non potrà essere più toccato, studiato, trasmesso. Le giovani generazioni perdono luoghi che avrebbero potuto restare punti di riferimento, che narrano le storie di famiglie, usanze, comunità.

  • Distruzione del sapere: documenti, archivi storici, collezioni culturali — molti erano unici. La loro perdita significa che certi aspetti della storia non potranno più essere ricostruiti o compresi nella loro completezza.

  • Effetti psicologici: perdere una casa è devastante; perdere la propria biblioteca comunale, la moschea antica, il lavatoio ottomano o il cortile di una scuola storica, aggiunge una dimensione del dolore che è difficile da misurare. Non è solo la distruzione fisica, ma il senso che qualcosa di grande, che va oltre l’individuo, è stato cancellato.

Perché interessa anche se “la guerra finisse”

Potenzialmente, anche se un piano di cessate-il-fuoco entrasse in vigore, la ricostruzione di opere culturali è molto più lenta e più complessa che la ricostruzione di un edificio residenziale. Ci vogliono studi, fondi, periti, restauratori; servono materiali, spesso specifici; bisogna preservare ciò che resta, ricostruire laddove possibile e curare il rischio che la memoria si perda per sempre.

Inoltre, questi luoghi di memoria spesso non sono solo simboli: sono luoghi vivi — spazi di incontro, di cura comunitaria, di confronto, di identità religiosa o culturale. Una volta che vengono distrutti, non è solo il monumento che manca: è il tessuto che tiene insieme la comunità.

Scritto da: Daniele Biacchessi


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