Il Corsivo

Si allarga l’inchiesta sugli italiani che colpivano la popolazione civile di Sarajevo

today17 Novembre 2025

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Scritto da Daniele Biacchessi

L’inchiesta della procura di Milano riporta alla luce il macabro turismo di guerra che, negli anni dell’assedio di Sarajevo, attirò cecchini stranieri, anche italiani, pronti a pagare per colpire civili indifesi.

Negli anni della guerra nella ex Jugoslavia, tra il 1992 e il 1996, gruppi di stranieri, americani, canadesi, russi, ma anche italiani provenienti da Milano e Torino, si trovano a Trieste, proseguono il viaggio per Belgrado e raggiungono Sarajevo solo per sparare contro la popolazione civile. Sono i cecchini della porta accanto disposti a pagare cifre enormi pur di ammazzare.

Oltre undicimila morti, duemila bambini, ma in tutto il Paese la guerra civile conta oltre 100 mila vittime. L’inchiesta della procura di Milano parte da un esposto dettagliato dello scrittore milanese Ezio Gavazzeni presentato il 28 gennaio scorso. Ora l’indagine si allarga e delinea fatti, luoghi, tecniche utilizzate.

Storia di una carneficina

I killer mettono in pratica una pratica terrificante: i bersagli, prevalentemente musulmani, bambini, donne, non venivano uccisi al primo colpo. Prima si puntava, poi si sparava e cominciava l’attesa: i feriti morenti a terra e all’arrivo dei soccorsi ricominciava la carneficina. E per sparare a un bambino c’è anche chi era disposto a pagare di più. I cecchini del weekend, arrivano a Sarajevo il venerdì, rimangono due-tre giorni, poi ripartono la domenica per tornare alla loro vita normale il lunedì.

Si tratta di persone dedite alla caccia, appassionati di armi, alcuni anche appartenenti all’estrema destra, soprattutto gente facoltosa e insospettabile. Un ex ufficiale dell’intelligence militare bosniaca sostiene di aver condiviso le informazioni sui safari umani a Sarajevo con i colleghi del Sismi italiano. Sono state utilizzate le infrastrutture dell’ex compagnia aerea serba di charter e turismo Aviogenex con una filiale a Trieste. E’ difficile prevedere dove possa portare questa inchiesta, ma il nuovo lavoro degli investigatori conferma i dubbi di chi a Sarajevo aveva colto mani non solo militari dietro allo sterminio dei civili. Mani sporche di sangue.

Il Museo dell’infanzia di guerra a Sarajevo

Durante l’assedio della città, gli snipers non miravano solo a obiettivi militari: secondo le testimonianze raccolte nell’esposto di Ezio Gavazzeni, molti dei “cecchini del weekend” pagavano di più per colpire i bambini, nella convinzione macabra che quel gesto infliggesse il massimo dolore. Questa crudeltà ha contribuito a un’immagine potente e persistente: le colline intorno a Sarajevo non erano solo posizioni belliche, ma luoghi da cui si assisteva a una forma distorta di “gioco”, dove le persone da abbattere erano esseri umani inermi, non avversari tattici. In un certo senso, questa dimensione trasforma il conflitto in qualcosa che va oltre la strategia: diventa uno spettacolo morale del tutto depravato.

Ma c’è anche un’altra eredità, di tipo culturale ed emotivo. A Sarajevo oggi esiste il Museo dell’infanzia di guerra (War Childhood Museum), un luogo dedicato a raccogliere memorie, oggetti, diari, fotografie, giocattoli e lettere dei bambini che hanno vissuto l’assedio. Questi cimeli di fatto non costituiscono solo una testimonianza della violenza, ma raccontano tutte le vite spezzate, l’innocenza perduta, e la quotidianità che veniva infranta alla mercé dei proiettili: giocattoli fermi, diari abbandonati, ricordi di un’infanzia interrotta.

Quel museo è anche un antidoto simbolico al racconto dei “cecchini-turisti”: mentre alcuni pagavano per infliggere sofferenza, altri come sopravvissuti e testimoni raccolgono oggetti di vita quotidiana per restituire dignità a chi è stato vittima. Le stanze del museo parlano di resilienza: ogni oggetto è una voce, un richiamo alla normalità perduta ma anche a una memoria che non si arrende. In questo senso, l’aspetto umano della guerra, e cioè quello della perdita, del dolore ma anche della testimonianza, emerge come una risposta più potente e duratura di qualsiasi cronaca di crimine.

Scritto da: Daniele Biacchessi


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