Il punto della settimana

La prima fase

today12 Ottobre 2025

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Scritto da Giornale Radio

A cura di Ferruccio Bovio

Si apre, dunque, la prima fase dell’accordo siglato a Sharm El Sheik tra Israele e Hamas dopo due divisivi ed interminabili anni di guerra. La firma arriva, in larga misura, grazie alla mediazione di Qatar e Turchia (che di Hamas sono sempre stati, notoriamente, sostenitori), oltre a quella decisiva dell’Amministrazione americana (soprattutto, nella persona di Jared Kushner, il brillante affarista, genero di Donald Trump).
Tornano così finalmente a casa gli ostaggi – vivi o morti che siano – ancora imprigionati a Gaza, per la più che comprensibile felicità delle loro famiglie, rimaste per troppo tempo in uno stato di ansia crudele e logorante. Tornano – dovrebbero essere 48 – in cambio del rilascio di circa duemila attivisti palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, dei quali 250 sono ergastolani che scontano condanne per attentati terroristici. Un rapporto che potrà forse apparire piuttosto squilibrato, ma che, in realtà, rientra perfettamente nella tradizione che, fin dal 2011, aveva visto Hamas liberare il soldato israeliano Gilad Shalit (prigioniero da 5 anni) in cambio di 477 detenuti palestinesi.

Gli obiettivi di questa guerra, per Tel Aviv, erano due: e cioè, l’eliminazione da Gaza del gruppo terrorista ed il ritorno degli ostaggi. Solo il secondo è stato – o almeno si spera – raggiunto, mentre il primo è, come del resto era prevedibile, fallito. La presenza di Hamas resta, infatti, se non militarmente, almeno politicamente tutt’altro che estirpata ed appare, quindi, ingenuo ipotizzare che, da parte sua, ci sia – come le chiederebbe il piano Trump – un’effettiva disponibilità al disarmo totale ed alla rinuncia ad esercitare un ruolo politico nella Palestina che verrà.
D’altra parte, Israele – salvo, ovviamente, agire in modo tale da dare sul serio ragione a quanti lo accusano di genocidio – si era venuto a trovare in una situazione senza vie d’uscita: 24 mesi di uccisioni e di distruzioni nella Striscia non erano, infatti, bastati per vincere la guerra e la contrarietà stessa (più volte emersa) di buona parte dell’esercito e dei servizi segreti al proseguimento delle azioni militari, non poteva continuare ad essere ignorata “sine die” dal governo Netanyahu… L’idea di occupare Gaza – tanto cara agli elementi meno presentabili della politica israeliana – esigeva, infatti, un costo troppo alto sia in termini di vite umane, che in termini di isolamento internazionale. L’impressionante sostegno mediatico nei confronti della causa palestinese che, col passare del tempo, è pericolosamente divenuto un vero e proprio “placet” per Hamas, stava (e sta) infatti portando il mondo intero ad identificare Israele in uno Stato criminale. Può davvero un Paese democratico come Israele rinunciare ad avere scambi commerciali, diplomatici o culturali come fosse una Corea del Nord qualsiasi? Certo che no…e probabilmente un segnale inequivocabile, in questo senso, a Netanyahu è arrivato lo scorso settembre, quando l’attacco missilistico lanciato sul vertice di Doha è fallito proprio per il boicottaggio messo in atto dal Mossad. Tra l’altro, questo ennesimo e maldestro passo falso di Bibi ha pure sortito l’effetto – altro segnale che le cose in Medio Oriente erano in evoluzione – di indurre Trump a fornire al Qatar la garanzia di un intervento militare in suo favore in caso di nuove aggressioni. Un privilegio, finora, mai concesso ad alcun stato arabo ed al quale hanno fatto seguito le pubbliche (e certamente non spontanee) scuse di Netanyahu con l’emiro di Doha.
Il Qatar e la Turchia sono stati – almeno sino a ieri e unitamente all’Iran – i santi protettori di Hamas e, in definitiva, forse continuano ancora ad esserlo, visto che, tutto sommato, i fondamentalisti di Gaza, hanno pur sempre ottenuto il tutt’altro che scontato impegno dello Stato ebraico a non riprendere la guerra.
Israele esce, quindi, da questa “prima fase”, incassando il ritorno degli ostaggi e riportando molti successi tattici – ma non definitivi – quali possono essere considerati il ridimensionamento militare di Hamas, di Hezbollah o dell’Iran. Ma la strada per una sorta di palingenesi mediorientale resta ancora, indubbiamente, molto lunga ed accidentata.
A Trump, nei confronti del quale non abbiamo mai nascosto la nostra disistima, va, comunque, dato atto di essere stato l’unico attore in grado di prospettare un concreto barlume di speranza per la fine di un conflitto che magari non sarà “millenario” come lo definisce lui (a proposito, qualcuno glielo spiega, una volta per tutte, che Israele è nato soltanto nel 1948?), ma che, comunque, di atrocità e di fanatismi ne ha già vissuti fin troppi.

Fonte Foto: Jaber Jehad Badwan  CC BY-SA 4.0

12 Ottobre 2025

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