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today4 Marzo 2024
Stanno destando accese discussioni – soprattutto in ambito sindacale – i propositi annunciati dal ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, circa la possibile creazione delle cosiddette “classi di transizione”, studiate per consentire agli studenti di origine straniera di recuperare alcuni gap linguistici e culturali che molti di essi, per ovvie ragioni, denotano al loro arrivo nel nostro Paese, rispetto ai loro compagni italiani.
Secondo il ministro, “per gli stranieri occorrono forme diverse”. In altre parole, ogni istituto scolastico dovrebbe verificare, all’atto di iscrizione dei ragazzi immigrati, il loro grado di conoscenza della nostra lingua, per poi decidere se indirizzarli verso le classi “normali”, oppure in altre in cui le lezioni di italiano e matematica sarebbero tenute da docenti in grado di accompagnarli, gradualmente, verso l’obbiettivo di una “vera integrazione”. Del resto, questo metodo di inserimento scolastico non sarebbe una novità assoluta, poiché viene già adottato sia in Francia, che in Germania.
Partiti di opposizione e sindacati vedono nelle “classi di transizione” una sorta di riedizione delle vecchie “differenziali” ed in alcuni casi non esitano a parlare di “classi ghetto”. Tuttavia, francamente ci sfugge dove si anniderebbe l’intenzione ghettizzante nel cercare di mettere un bambino di sei anni nella condizione di capire quello che gli dicono i suoi compagni o quello che ascolta ogni volta che accende una radio…
Immaginiamo, per un attimo, di doverci trasferire in un Paese del quale ignoriamo completamente l’idioma: non ci farebbe piacere (e comodo) se, al nostro arrivo, ci venissero subito offerti dei corsi di lingua locale? Che cosa c’è, dunque, di così sbagliato nel progetto di Valditara? Siamo sicuri che la forma di eguaglianza culturalmente più auspicabile sia veramente quella che si raggiunge perseguendo l’appiattimento nella mediocrità?
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Credits: La Stampa
04 Marzo 2024
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Scritto da: Giornale Radio
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