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Biden, lo Stato palestinese e il no di Gerusalemme

today4 Febbraio 2024

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A cura di Ferruccio Bovio

Sembra che gli Stati Uniti siano sempre più convinti della necessità di realizzare, concretamente ed urgentemente, un piano definitivo per il futuro dei rapporti israelo–palestinesi, da delinearsi già prima che l’attuale conflitto armato sia concluso. Per la verità non c’è nulla di ufficiale e si tratta, più che altro, di indiscrezioni che però non vengono smentite dai principali centri di comando di Washington, nella consapevolezza del fatto che il raggiungimento di una pace duratura si renderà possibile solamente attraverso cambiamenti radicali e, pertanto, potenzialmente sgraditi ad entrambe le parti in causa. D’altronde, è indispensabile che, almeno tra le componenti più ragionevoli in campo, si faccia strada, una volta per tutte, l’idea che l’alternativa al dialogo è quella di dover rivivere, prima o poi, un nuovo 7 ottobre, al quale farebbe, inevitabilmente, seguito  l’ennesima reazione massiccia e cruenta da parte di Israele. Certo, nel caso in cui il piano di pace (che si dice stia maturando presso l’Amministrazione Biden) prendesse veramente corpo, gli interlocutori al tavolo delle trattative non andrebbero ovviamente cercati tra i leaders di Hamas (dediti, da sempre, alla logica del “tanto peggio, tanto meglio”) e nemmeno tra gli esponenti della destra religiosa e nazionalista israeliana che, nella migliore delle ipotesi, non hanno in testa alcuna soluzione negoziale spendibile e, nella peggiore, sognano, invece, di “ risolvere” la questione palestinese occupando direttamente non solo Gaza, ma anche l’intera Cisgiordania…

Comunque sia, dalle notizie che giungono da qualificate fonti d’Oltreoceano, pare che la Casa Bianca, probabilmente indispettita dall’atteggiamento sostanzialmente inaffidabile assunto negli ultimi anni da Netanyahu, sia entrata nell’ordine di idee di dover procedere – magari anche unilateralmente – verso il riconoscimento di uno Stato (sia pure demilitarizzato) palestinese. Si tratterebbe di una decisione di assoluta rilevanza storica e destinata a ridisegnare completamente tutta la mappa dei fragili equilibri mediorientali. E’ noto che, se in Israele la soluzione dei due stati non ha mai suscitato particolari entusiasmi, oggi è divenuta quasi del tutto impopolare: e la cosa è, probabilmente, il riflesso delle cocenti delusioni  che l’opinione pubblica israeliana deve aver provato in due occasioni del passato. La prima è quella che ci riporta agli incontri di Camp David (avvenuti con la mediazione di Bill Clinton) nel 2000, quando  l’allora premier Barak offrì a Yasser Arafat la possibilità di dare vita ad un nuovo Stato nazionale arabo in cambio della pace. La seconda è, invece, quella – del tutto analoga – in cui, nel 2008, fu il nuovo premier Ehud Olmert a proporre ad Abu Mazen – sempre in cambio del riconoscimento reciproco – la cessione del 93% della Cisgiordania, la quale – unitamente al territorio di Gaza che era già stato abbandonato da Israele nel 2005 – avrebbe dovuto   delimitare i confini della tanto agognata patria palestinese. Purtroppo, in entrambe le situazioni, i due rais arabi rifiutarono – in maniera che al mondo parve addirittura inspiegabile – le proposte ricevute. A meno che – pensarono allora in Israele – una ragione (sebbene inconfessabile) per il sorprendente diniego in realtà ci fosse e affondasse ancora le sue radici nell’ancestrale ed ostinato rifiuto islamico di riconoscere il diritto di esistere allo Stato ebraico. Tuttavia, al di là di queste titubanze israeliane (che, a nostro avviso, sono, comunque, piuttosto comprensibili in chi, da 75 anni, anni è obbligato a vivere con la paura di salire su un autobus o di entrare in un ristorante), a noi non resta che scommettere sulla parte meno “messianica” della società israeliana (la quale, al momento, è grazie al cielo ancora maggioritaria), sperando si riveli politicamente ed emotivamente pronta per digerire il riconoscimento americano di uno stato autonomo palestinese, accentandolo come un passaggio divenuto oramai inevitabile. Soprattutto se la cosa dovesse significare – ma questa volta però sul serio – la fine di una sequenza infinita di rancori, di lutti e di violenze.

4 Febbraio 2024

Scritto da: Giornale Radio

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